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Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La Tribuna di Treviso – In fondo al Tirreno, il popolo di Tigi

La memoria tra i frammenti di un aereo: è la rotta della storia
Un lungo lavoro di analisi sull'istruttoria del giudice Priore Poi a Bologna e Palermo va in scena la storia del Dc9 dell'Itavia sul quale morirono 81 persone, rimaste senza giustizia

In libreria la videocassetta “Canto per Ustica” di Marco Paolini, assieme al testo scritto dall'attore con Daniele Del Giudice

Arriva oggi in libreria “I-TIGI Canto per Ustica” (Einaudi, £.35.000), l'ultimo lavoro teatrale e televisivo di Marco Paolini. La formula è quella ormai collaudata della cassetta più un libro che la accompagna, la stessa che già aveva portato in libreria “Vajont” e “Bestiario Italiano”.
L'effetto dell'accoppiata è un positivo strabismo, un guardare insieme indietro ed avanti, perché se da un lato c'è lo spettacolo, come è stato fissato una sera di giugno a Bologna, dall'altra c'è un diario a due voci, quella di Marco Paolini e quella di Daniele Del Giudice, che racconta un dietro le quinte che di fisso non ha nulla, anzi.
E il libro regala qualcosa che è assolutamente raro di questi tempi, regala la perplessità di due persone alle prese con qualcosa che è più importante di loro, perché ha toccato le vite delle persone, perché le ha cambiate, perché ha toccato la storia d'Italia e forse ha cambiato anche quella, ma questo non lo sapremo mai. Lo dice chiaramente Daniele Del Giudice, quando scrive che la tragedia di Ustica è una questione di democrazia. Perché, forse, nel caso di Ustica i militari, o il governo, o addirittura il governo di una altro paese hanno agito come autocrazie. Ma è quel forse che conta, un forse che può dispiacere (e in qualche caso è dispiaciuto) ai parenti delle vittime, perché lo spettacolo, e con esso il libro, non dice chi è stato, non dice perché è stato. Però in cambio c'è la perplessità, il dubbio, che è quello di sapere cosa si può raccontare e cosa no.
Marco Paolini descrive nel libro un litigio con Daniele Del Giudice, perché durante una delle prove lui ha detto troppo e lo scrittore lo rimprovera. Perché una cosa è pensare cosa può essere successo, altra cosa è raccontarlo, dirlo come verità da un palcoscenico. Ma non è solo questo. E' tutto il fare di questo spettacolo che è percorso da un onorevole dubbio.
Partendo dall'inizio, da quando a Paolini e Del Giudice, che lavorano insieme allo spettacolo su Marghera, arriva la proposta di un racconto teatrale dedicato ad Ustica, da mettere in scena a Bologna e Palermo qualche mese dopo. Difficile dire di no, ma difficile anche dire di sì, perché il tempo è poco, il materiale enorme.
Il punto di partenza è un racconto di Del Giudice, “Unreported inbound Palermo”, scritto nel 1994 e pubblicato in “Staccando l'ombra da terra”. Ma bisogna anche cambiare tutto, perché nel frattempo sono uscite le 5500 pagine della sentenza del giudice Priore. E i due le leggono e Del Giudice comincia a scrivere. Ma cosa? Di nuovo la perplessità. Come strutturare il racconto? Con che parole dirlo: quelle tecniche e precise del gergo aeronautico o quelle semplici e fumose del linguaggio comune?
E' consolante sapere che Del Giudice e Paolini hanno litigato su questo, che le loro riunioni di lavoro sono spesso terminate con incazzature e cene con salame e formaggio. Perché su una cosa come questa, su un racconto come questo l'accordo sarebbe innaturale: troppe sono le esigenze di cui tenere conto, diverse le sensibilità, diversi gli obiettivi, perché certo i parenti delle vittime hanno le loro ragioni, ma un testo, una orazione civile giustamente può averne altre.
Ma è anche una questione di parola: la parola di Del Giudice, che è quella di uno scrittore, insieme e contro la parola di Paolini, che è quella di un attore.
Due modi diversi di raccontare la storia dei Tigi, non la storia di Ustica. Perché questo, ma non solo questo in realtà, rimane del racconto di Del Giudice.
L'idea che in quella sigla dell'aereo caduto I-TIGI sia come contenuto il nome di un popolo sommerso, o di alberi secolari, un nome che non è solo una sigla, perché Tigi sono quelle 81 persone morte e Tigi siamo noi, che non sapremo mai con sicurezza come sono morte.
Non è un caso se per tutti e due, Del Giudice e Paolini, il momento più drammatico del loro viaggio in questa storia è la visita all'hangar di Pratica di Mare in cui è stato ricomposto l'aereo con i pezzi ritrovati a più di tremila metri di profondità. L'aereo c'era prima e c'è di nuovo, ma mancano le persone e di fronte a questo la penna di Del Giudice non può che tacere.
E è consolante, anche la domanda che si fa alla fine Paolini, un altro dubbio. La gente che incontra gli dice bello lo spettacolo, ma qualcuno dice che la tv l'ha trasmesso troppo tardi e allora non ha visto la fine.
E lui, allora, si interroga sul perché di fronte a “Vajont” la gente non ha saputo staccarsi e questa volta sì. Un bel dubbio, che rimanda alla cassetta, che testimonia l'altra parte di tutto questo: un testo definito, fissato, da giudicare per quello che è.

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