L'attore debutta al Piccolo con lo spettacolo «Sani» «Un saluto che si usa sul Piave, in realtà un augurio».
Un saluto che diventa viatico per il mondo nuovo. Si dirà: nell'etimologia stessa del saluto - augurarsi a vicenda una buona vita, lontana dalle malattie -, c'è la speranza di un futuro, ma il titolo dello spettacolo di Marco Paolini (allo Strehler fino al 5 dicembre) è di più.
Perché lo ha chiamato «Sani!»?
«Perché dopo il Covid siamo cambiati tutti. Non si può far finta di niente, bisogna davvero riflettere su quello che è successo, per capire quanto siamo tutti appesi a un filo».
D'accordo, ma perché quel titolo, forse in opposizione a un periodo di cui ancora viviamo gli effetti?
«È un saluto che si usa nella valle del Piave, rispettoso, che mantiene le distanze, oserei dire di sicurezza. Non è un ciao, che ha nell'etimologia il senso di chi si mette a disposizione. Allo spettacolo ho lavorato quest'anno, partendo da episodi della mia vita, come il disastroso momento in cui invitai Carmelo Bene dalle mie parti, nel lontano 1983, per farne uno spettacolo. Non vi dico di più, chi verrà allo spettacolo avrà soddisfazione».
C'è una storia come quella di Bene, e altre che prendono spunto dalla guerra fredda, dal terremoto del Friuli, dalla ripartenza dopo la pandemia. Non si stanca mai di raccontare vicende grandi e piccole?
«Mai, per me il teatro è questo. Non frequento i colleghi, le compagnie, le dirigenze. Ma non c'è polemica. Il mio teatro nasce dalla gente, da chi non sa neppure che cosa sia un sipario, andare in scena, la regia, ma racconta vicende che diventano materia da portare sotto gli occhi degli spettatori. Non ho certo inventato un genere: ci sono stati Gaber, c'è stato Fo, ci sono altri - penso a Celestini - che portano avanti questo modo di intervenire sulla realtà. Lo chiamano teatro di narrazione, a me sta bene».
Lei in scena, che parla, suda, interpreta. E anche canta, giusto?
«Vengo accompagnato da musiche eseguite dal vivo da Saba Anglana e Lorenzo Monguzzi. Canto pure. Cerco di fondermi con il pubblico. Il sottotitolo dello spettacolo è Teatro tra parentesi, non nel senso che se ne può prescindere. Penso che gli spettatori abbiano il diritto di vivere un'esperienza da dentro, non di guardarla da fuori».
A Milano è un debutto nazionale?
«Quasi. Lo spettacolo l'ho fatto, ma come rodaggio, dalle mie parti, nel Veneto. C'è sempre qualcosa da mettere a posto, un inserimento che non mi convinceva e invece vedo che può funzionare. Un lavoro teatrale non è mai rifinito, ogni replica ha la propria vita. Ma mi sembra che stiamo facendo troppa filosofia, non vorrei che i potenziali spettatori si spaventassero».
Lei si è fatto conoscere col potentissimo «Il racconto del Vajont». Negli anni `90 fu un successo pure in Rai. Che cosa la incuriosisce adesso?
«La finanza, vorrei raccontarla alla mia maniera. Segna la nostra vita, ma in fondo ne sappiamo pochissimo».
di Antonio Bozzo
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