«Siamo custodi, non padroni». E’ il monito col quale Marco Paolini ha chiuso l’altra sera al deposito locomotive storiche della stazione di Pistoia il suo «oratorio civile» dedicato al treno. A ogni tipo di treno: soprattutto se considerato un «ramo secco» e a rischio di estinzione, soprattutto se privo di aria condizionata ma con i finestrini rigorosamente apribili. «La memoria e la storia si perdono facilmente e allora ci sono certe ’cose’ essenziali che è necessario aver sempre presenti — per esempio le tradotte per il fronte traboccanti di soldati-carne da macello o i convogli di vagoni piombati pieni di ebrei — per evitare di consegnarle all’oblio».
In uno scenario unico e irripetibile, su un ’palcoscenico’ costituito da uno di quelle enormi piattaforme metalliche girevoli utilizzate per la manutenzione dei locomotori e rimontata per l’occasione, circondato da quattro superbe locomotive d’epoca tirate a lucido (una «740», una «640», una «741» e una «626») e con 4 vagoni ’centoporte’ illuminati come fondale, Paolini ha alzato per due sere il suo struggente e accorato ma lucido e intransigente canto d’amore per il treno. Per «quella cosa che è la più lunga che corre sulla terra», per quell’unico mezzo di trasporto che non può essere personale e privato (come invece possono esserlo l’auto, la barca o l’aereo e «che forse proprio per questo lo vogliono ammazzare»), per quel treno «che in Sardegna, ma ormai non solo lì, ha perso la precedenza e ai passaggi a livello deve fermarsi per far passare le automobili». Per quel treno simbolo lancinante di valori — «la neve, la fragola e la mosca; il regno minerale e l’assemblea delle stelle; due vecchi che si amano; tutte le ferite; riparare un paio di scarpe; tacere in tempo; accorrere a un grido; provare gratitudine senza ricordarsi di che; l’uso del verbo amare» come ha scandito Paolini citando Erri De Luca — che vengono calpestati e traditi, derisi e abbandonati, dimenticati e ammazzati in questa nostra povera Italia la quale da «terraferma» è diventata «terrachiusa» e che «nei canali d’Otranto e di Sicilia lascia annegare per negare» quegli stormi di «migratori senz’ali, contadini di Africa e di oriente» (ancora De Luca).
A far da coro all’«oratorio civile» di Paolini le poesie-canzoni dolenti e disincantate del capostazione Gian Maria Testa («Le donne nelle stazioni / c’è sempre uno che le aspetta; / le donne nelle stazioni, / e certe gonne come aquiloni nelle tempeste, / scure eleganze da cormorani / ombre di rosso sopra i capelli / e sulle mani / ma se ne vanno via in compagnia / e sono già diverse / e non si voltano più, non si voltano più») e il violoncello sublime dal quale Mario Brunello tira fuori una voce ’umana’ che ha pianto e gridato anch’essa la protesta e l’indignazione.
E dopo un Monte Canino da far venire i brividi (anche a chi, l’altra sera, non conosceva questo desolato canto degli alpini della Grande Guerra), via tutti insieme: attore, musicisti e pubblico, a cantare in una sorta di coro liberatorio. La locomotiva di Guccini, degna conclusione di uno spettacolo che lascerà il segno in molti cuori e in molte coscienze.
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