Approda questa sera al Piccolo Teatro di Milano - ed è il primo vero teatro dopo un lungo girovagare sottotraccia per circoli, ospedali e università - uno spettacolo straordinario germogliato da quello che Gherardo Colombo chiama nella sua autobiografia "il vizio della memoria". Si intitola, semplicemente e seccamente, "Vajont".
Marco Paolini, autore-attore, in questi due anni ha avuto "vergogna e pudore" di portare in un vero teatro, con le luci e tutto quanto, una cosa come questa, cresciuta e cambiata di sera in sera, fuori dai circuiti tradizionali, senza un tam-tam che non fosse il passaparola di chi ne era rimasto stordito, affascinato e risvegliato.
Paolini (quarant'anni, bellunese) sta per tre ore solo in scena, con i modesti arnesi di un professore di storia: una lavagna, un tavolo ingombro di carte. Racconta come fu che si decise di costruire quella diga modernissima, nel 1929: il procedere dei lavori, le prime avvisaglie del pericolo travolte dal cieco ottimismo degli scienziati, le prove, i collaudi.
Fino a quel 9 ottobre 1963. La gente, a Longarone e negli altri paesi della valle, guardava Real Madrid-Rangers Glasgow davanti ai primi televisori nei bar. La frana del monte Toc, la terribile ondata che tracima e in tre minuti spazza via duemila vittime.
C'è una caparbia voglia di esattezza, in questo racconto. Sono le cifre, i livelli, i nomi e i cognomi, le giravolte della burocrazia e le miserie della rapacità a tenerlo attaccato a terra.
Tutto è preciso, dettagliato, arricchito di episodi e memorie personali: ovunque Paolini l'ha rappresentato finora, c'era qualcuno che ricordava qualcosa in più, che aveva conosciuto e vissuto. La gente di Longarone, quando Paolini se l'è sentita di recitare davanti a chi sapeva, ha rivisto, rivissuto, ricordato meglio, frantumato il luogo comune della disgrazia ineluttabile.
Lui, sulla scena, si tiene accuratamente distante dall'enfasi emotiva. Alla tragedia, all'ondata immane che semina morte, dedica tre minuti su tre ore di spettacolo. E in quei tre minuti, soprattutto silenzio. Ma prima, racconta da maestro mescolando i dialetti e le persone, suonando le corde del sarcasmo (si ride spesso, fra l'altro), della rabbia e della testimonianza.
Abbiamo visto "Vajont" in mezzo a una platea di ragazzi, quasi nessuno era nato in quel '63, e per tre ore li abbiamo visti inchiodati a quella lezione di storia così avvolgente da far pensare che, forse, sarebbe potuta finire in un altro modo da come è andata. Perché se avete il sospetto che questo spettacolo sia una tardiva lezioncina di teatro politico, vi sbagliate. È roba forte, che ti prende e non ti molla più.
Ed è non solo il "vizio", ma il gusto della memoria a muovere il lavoro di un attore così atipico come Paolini. Lui, che nel '63 aveva sette anni, se l'era sentita raccontare in un altro modo la storia del Vajont. Una disgrazia, una fatalità. Finché non s'è imbattuto in quel grande libro che è "Vajont 1963 - La costruzione di una catastrofe" di Tina Merlin, all'epoca corrispondente dell'Unità.
Si è "sentito fregato", si è "vergognato di non sapere la verità", ha ricostruito una memoria che non aveva, cercato persone e studiato carte, ritrovato una gente che ha scelto come propria.
Se davvero, come pare anche al ministro della Pubblica istruzione Berlinguer, è arrivato il momento di far studiare ai ragazzi la nostra storia recente e fresca, forse è il caso che si chieda consiglio a questo attore bellunese e alla sua lavagna.
Se c'è bisogno della memoria per rompere la crosta opaca di un eterno oggi ripetitivo e anestetico, andate a vedere "Vajont". Marco Paolini recita stasera al Piccolo Teatro di Milano, e oggi è il 12 dicembre: vi ricorda qualcosa?
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