Anticipiamo la prefazione di Franco Marcoaidi per il nuovo cofanetto (libro più dvd) "Ritratti" di Andrea Zanzotto di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini (Fandango, pagg. 72, euro 20), in libreria dal 30 marzo, che verrà presentato a Roma nella Casa delle letterature alle 18
Chiunque conosca la poesia di Andrea Zanzotto sa bene quanto i balbettii, i crampi vocali, le ecolalie, le onomatopee, i grumi sillabici, i silenzi senza sbocco di una 'psiche ustionata' che si specchia e si confronta con una realtà definitivamente terremotata, finiscano per dar luogo a un proliferare di voci, a una deflagrazione della materia linguistica e dunque a uno zampillio segnico irrefrenabile, in cui si intersecano e collidono sulla pagina tanto parole quanto graffiti, filamenti, scalfitture, segni stradali, fumetti, cesure, simboli matematici.
La poesia si presenta dunque, qui più che mai, come travagliata germinazione di un'immagine. In tutti i sensi. Da ogni punto di vista: immagine di una voce, immagine di una parola, immagine di un segno. Ecco perché un ritratto visivo come quello di Mazzacurati e Paolini restituisce al meglio, con assoluta nitidezza, il tormentato iter del processo poetico zanzottiano.
Si pensi, ad esempio, a quel momento del filmato in cui si dà conto della creazione di un vero e proprio ideogramma in chiave occidentale. Andrea recita un distico ("o falso haiku") tratto dalla raccolta Meteo che suona: "Mai mancante neve di metà maggio/chi vuoi salvare?/Chi ti ostini a salvare?".
Si tratta, dice il poeta di Pieve di Soligo, della semplice lettura del profilo delle Prealpi per come lui le vede dalla cucina di casa. E in effetti la visione delle montagne, appaiata alla lettura delle parole poetiche, restituisce l'idea di un matrimonio indissolubile: "Mai MaNcaNte Nev e di Metà Maggio, una serie di linee che rende, anche iconicamente, la possibilità di questi suoni e fa scattare questo tipo dipensieri".
Con una semplice immagine, con la lettura di pochi versi, eccoci da subito in medias res. Eccoci precipitati nel pieno del vertiginoso universo zanzottiano. In quel rapporto fisico e metafisico che il poeta stabilisce sin da infante con il paesaggio: "le prime emozioni paesistiche le ho avute proprio in anni di primissima infanzia, forse addirittura a un anno, un anno e mezzo... il senso di delizia che mi proveniva, andando in calesse con mio padre e mia madre che mi teneva ancora al seno... un ricordo perfetto che ho espresso anche in una delle poesie della Beltà; le foglie che cadevano, l'autunno, il trin trin, questo andare verso... qualcosa di meraviglioso".
Poco dopo il bambinetto Andrea compare vestito da principino in quella specie di "fascia paradisiaca" affrescata dal padre nel salotto della casa nativa, con tanto di "galli cedroni, passeri, aironi, fruttiere stracolme alberi in stagioni diverse".
II paesaggio si trasforma in 'mito' e in accumulo progressivo della "nostra storia psichica"; comincia a mostrare la sua duplice veste di incanto e gabbia, di "immenso donativo" che offre il respiro alla "presenza della psiche", ma anche di universo che "punge e tra-punge" il soggetto immerso in esso, rimanendo a sua volta continuamente ferito a opera di quello stesso soggetto.
Ferito dalle tragiche idiozie della storia, da una tecnoscienza che non conosce freni, dalle malversazioni quotidiane di un primate sapiens sapiens che non risulta poi così sapiente come pretenderebbe di essere. Di modo che l'incantato paesaggio, picchiettato dalle mille, diverse erbette per le quali il poeta in passeggiata recita i propri versi in uno scambio personale con il mondo vegetale, finisce per caricarsi sempre più di tumefazioni, necrosi, scorie sanguinose e putrescenti.
Perché, tra le tante, Andrea Zanzotto ha anche questa straordinaria qualità. Di cercare spasmodicamente la bellezza e la bontà dei mondo in ogni suo recondito anfratto ("Mondo sii, e buono;/esisti buonamente") e al contempo di guardare in faccia, con coraggio, tutta la desolazione e l'orrore che lo connota. E questo sguardo stereoscopico finisce poi per incarnarsi nel corpo stesso del poeta: nei passaggi repentini di uno sguardo beato che si fa improvvisamente malizioso e poi preoccupato e da ultimo allarmato; nel tambureggiare delle piccole mani che cercano (e trovano) il ritmo delle parole poetiche che la bocca via via va sillabando; nei radi capelli scompigliati che paiono trattenere quel vento che " proviene direttamente dalle steppe lontanissime della Balcania o forse anche dall'Asia centrale ", conntro cui Zanzotto combatte quotidianamente la sua esistenza di "meteorodipendente".
Solo così, vedendolo parlare, ascoltando quella sua lingua dolce e originalissima che sale e sale in un crescendo senza fine, vedendolo arrampicarsi dietro pensieri verticali che immancabilmente finiscono poi per srotolarsi come sontuosi drappi sul banco della conversazione, si può capire appieno quella sua immagine del poeta - a un tempo fierissima e modesta - come di chi si fa viandante e mendica, "raspa su" quel che trova, improvvisa un bricolage nella speranza di trovare una strada tutta sua per affrontare (ed eventualmente superare) le proprie faglie interiori. Dunque un'idea lontana mille miglia dalle pretese ideologiche dell'avanguardia e del suo "babelismo smitragliato ", visto che qui la poesia procede percauti assaggi, per progressivi spostamenti asintotici, nel tentativo di "restaurare il vuoto che c'è nel mondo, attraverso la trama dei versi, i ritmi", ben sapendo, comunque, che all'inizio "c'era il no, la negazione".
Scorrono ancora le immagini del toccante fumato di Mazzacurati. Si vede il poeta sul greto del Piave, tra i boschi, immerso tra i libri dietro la scrivania, con un vivace maglione rosso a collo alto. Lo si vedementre racconta conta stessa grazia e la stessa, puntualissima fantasmagoria verbale, i primi amori adolescenziali ("in quell'istante ho capito che io con le donne non sarei riuscito a comunicare - o scomunicare - che in poesia") e la formazione della propria lingua ("è stato un viaggio molto accidentato. I viaggi che non ho compiuto nella realtà, io li ho compiuti con la fantasia, avvicinandomi molto presto alla grande letteratura e creando, a volte, degli incroci, degli impasti che provenivano dalla frizione tra il mondo meno corde, fermo, del paese e le acquisizioni che facevo, instancabilmente, come cultura letteraria"). Lo si vede mentre rammemora scherzosamente il tessuto musicale dell'adolescenza, tra vecchie canzoni folkloristiche e la presenza preponderante di "pezzi d'opera cantati perfino dai preti, i quali, stanchi di preghiere e canti sacri, si sfogavano cantando l'opera per la strada"; e ancora mentre ribadisce, malgrado tutto, la centralità della poesia: "Chi più dà il vissuto profondo degli uomini del passato, se non la poesia che essi ci hanno lasciato e che parla dei loro sentimenti più intimi, della loro realtà quotidiana, non in termini di relazioni, ma in termini di germinazione, partecipazione e assoluta attualità?".
Lo dico sinceramente. Vedendo questo video, ascoltando la conversazione cantata che Zanzotto intrattiene con Paolini in familiare sintonia, riconoscendo i luoghi delle `passeggiatine' zanzottiane, certi angoli della sua casa di Pieve, addirittura certe barete (copricapi) che il Nostro indossa prima di spingersi all'aperto per affrontare il temibile vento 'asiatico', ebbene, mi sono commosso.
E ho provato, una volta di più, un senso di profonda ammirazione e gratitudine verso chi cerca per sé, e per tutti noi, la chiave giusta per aprire nuove porte al mistero del mondo. Verso chi sa, con Heinrich von Kleist, "che il paradiso è serrato e il cherubino ci sta alle spalle. Noi dobbiamo fare il viaggio intorno al mondo e vedere se si trovi qualche ingresso dal didietro ".
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