L' incontro
One man show.
Ha costruito un nuovo genere teatrale e ha portato sulla scena
scandali e misteri,memorie civili, saghe generazionali. E ora
torna a raccontare se stesso, la famiglia proletaria, gli amici
dei bar di provincia, la rocambolesca gavetta sulle piazze d'
Italia, la sofferenza amorosa e creativa. E così, a sorpresa, si
scopre un uomo che, dopo aver sparso sulle platee infinite parole,
in fondo fra sé e sé crede all' emozione del silenzio.
Io mi sento artigiano non artista, il senso di quel che faccio
oggi c' era già tutto nel girovagare col furgone, come gli
ambulanti dei mercati.
«Io non sono cresciuto con le favole dei miei, coi racconti
domestici di vita vissuta. L' unico piacere infantile dell'
ascolto che m' è rimasto in mente è un' immagine sonora: mio padre
che mi legge Topolino con l' intercalare dei gulp e dei gasp
accentuati in modo abnorme grazie a un cambio di tono e di volume.
Ne uscivano fuori astrazioni, onomatopee, rumori corporei che
davano una scossa a tutto il fumetto. E questa cosa mi piaceva, mi
rimaneva impressa. Molto. L' altra "parola" che nella prima
gioventù ebbe una risonanza diversa fu quella della televisione,
che da me, a Treviso, entrò in famiglia nel 1967, quando io avevo
undici anni. A dire la verità non ne sentivo il bisogno. Fin lì
avevo saltuariamente rubato qualche pezzo di discorso dagli
apparecchi installati nei bar». La voce è fluida, bassa, orientata
a un' intimità corretta da disincanto. Dopo aver ricostruito
testimonianze epocali, memorie civili e saghe e apologhi di
generazioni di coetanei, Marco Paolini ora racconta se stesso. Non
è stato facile, convincerlo. Ha l' aria d' un montanaro che
preferirebbe descrivere paesaggi piuttosto che tragitti personali.
Ha sempre, a ribadire un' indole da soggetto fuori del mucchio,
quella lieve barba incolta da esploratore di uomini, e di storie.
Ha il sorriso candido e schivo d' un jazzista che dal suo
strumento, la bocca, vomita infinite parole ma che poi fra sé e sé
crede all' emozione del silenzio. Ha citato il bar, luogo
paradigmatico dei suoi Album teatrali, parlatorio dei ragazzi di
provincia. Il bar come mitico crocevia, come seconda casa, come
rifugio degli sportivi... «Ma lo vuol sapere? In realtà io non
avevo un mio bar. Mi riferisco a caffetterie di altri, a locali
dove bighellonava il mio giro. Ho ritratto con immenso affetto il
bar della Jole, perché sede e meta collettiva della Jole Rugby
Trevigi. Il mio passaggio dall' infanzia all' adolescenza, dalla
terza media al primo liceo, ha semmai a che fare con la socialità
di un tavolo: smettendo di stare con un compagno di giochi,
passavo al contatto con un gruppo di persone che in genere
chiacchieravano di politica attorno a un tavolo. Ragazzi poco più
grandi di me, che discutevano di cose interessanti come il Vietnam
o la situazione in Portogallo, o di straordinarie svolte come il
‘68, che capivo essere una rivoluzione visto che la categoria dei
giovani, fin lì inesistente, s' era presa la scena senza aspettare
l' eredità degli anziani, apprendendo tutto dai coetanei. Con i
rischi relativi». I rischi della seduzione che subisce chi vive
lontano dal centro e sconta tempi più lunghi, con le novità che
arrivano come un' eco, col complesso di doversi mettere in pari.
Magari arrancando, magari non afferrando il cuore esatto di ciò
che avviene. «Pasolini dice che c' è un' età in cui è casuale che
ti schieri da una parte o dall' altra, dietro le idee proletarie o
quelle di destra. Dipende da un niente. Da un buon maestro o da un
cattivo maestro. Io sedetti al tavolo accanto a quelli che mi
fecero scoprire Kerouac, Hemingway, Pavese, e i dischi di Dylan».
Gli amici divennero un modello cui Paolini è rimasto legatissimo,
anche se non ha più incontrato i compagni di strada. E gli
servirono da termine di confronto. «Stando con gli altri t'
accorgi che non sei sempre il più bravo. Che ci sono cose che sai
fare e cose cui devi rinunciare. Mi riferisco allo sport, al
calcio. C' è chi tocca il pallone e "vede" il gioco, e fa il
passaggio perfetto, mentre io dovevo alzare la testa, e perdere
tempo. Ero un calciatore mediocre, smisi. Mi riferisco alla
musica. Ho scoperto con dolore che, mentre tutti se la cavavano
piuttosto bene, io ero negato a suonare la chitarra. Però mi
rifacevo e mi rifaccio tutt' oggi cantando. Negli anni Settanta
sono partito con cose popolari, canzonieri politici, il folk di
Woody Guthrie, le creazioni di Giovanna Marini (me le "bevevo"),
ogni tipo di tradizione». Da questa cultura dell' impegno alla
pratica del teatro il passo è breve. Paolini converte la politica
sul territorio e i circoli di apprendistato sociale in voglia di
comunicazione scenica, e il festival di Santarcangelo di Romagna è
l' utopia che diventa raduno, coscienza, cantiere di progetti,
piattaforma di spettacoli. Ma prima che Paolini diventasse
Paolini, qual è stato il tirocinio? «Al principio fu Brecht.
Mettemmo in prova per un anno e mezzo un Galileo, senza venirne a
capo. Impararlo a memoria era un inferno. Invece ci riuscì, nel
‘74 al liceo, l' allestimento de L' eccezione e la regola, con un
prologo e un epilogo di canzoni popolari di lavoro, di lotta. Un'
impresa didattica ma divertente. Replicammo nelle feste, al primo
maggio, o nei raduni di quartiere. Io, fin dalle prove, avevo la
tendenza di mandare in vacca il copione, storpiandolo, facendo
ridere gli spettatori, rendendo furibondi quelli che erano in
scena con me. Covavo secondi di immenso piacere prima di dire cose
micidiali. Mi sentivo idealmente sostenuto dalle correnti
alimentate da Santarcangelo e dalla rivista Scena di Attisani che
faceva ponti audaci tra gli acrobati sui trampoli e Laurie
Anderson». E qui Paolini è testimone delle mutazioni, delle
contraddizioni, degli estremismi, delle poetiche del corpo. Le ha
passate tutte. Fino a potersi permettere qualche rispettosa
ironia. «Non so, forse c' è stato un momento in cui m' ha persino
rovinato una certa lettura del teatro povero di Grotowski, una
nuova Bibbia che raccomandava di disimparare le battute e fare le
capriole. Il teatro, d' accordo, è anche questo, e la ventata
servì a "sessualizzare" attitudini che altrimenti, soprattutto nel
Veneto oberato da sensi di colpa, procedevano in modo formale e
castrante. Io trovai la spinta per aderire ad alcune realtà del
teatro di gruppo: Pontedera, il Teatro del Tamburo di Genova, e
César Brie a Milano dove trovai Danio Manfredini. Nel frattempo m'
ero piuttosto dedicato al teatro ragazzi, costituendo con altri
due attori il Teatro degli Stracci». Giorno dopo giorno le ossa si
facevano con la clownerie, con tracce di testo, con l' allenamento
grotowskiano. «La mappa italiana era costituita dalle sedi delle
altre compagnie di ricerca, un circuito del mutuo soccorso. Io
facevo un' imbarcata disordinata di esperienze strane ma utili. In
certi casi lavoravo senza aprire bocca. Eravamo comunque ostili
alle gerarchie accademiche. Io ho fatto un solo provino in tutta
la mia vita, quasi un omaggio affettuoso a Glauco Mauri che mi
"bocciò" e aveva ragione: anziché portargli un monologo, gli
raccontai una storia, e lui rimase interdetto ma mi fece lo stesso
i complimenti. Per fortuna, in parallelo, senza scalzare l'
edificio delle regole, s' affermava un' altra prospettiva del
teatro, quello delle piazze, del "passare una sera assieme", dei
festival». In questo ieri l' altro che ha recato emozione e nuovi
linguaggi al teatro, lui restò folgorato dai danzatori balinesi,
dalle scuole di mimo, dal contatto con Bolek Polivka, dal carisma
dell' argentino Brie. In materia di origini personali, a quale
tribù appartiene Paolini? «Mio padre era ferroviere e sindacalista
della Cgil, mia madre proveniva da un ceppo che trattava il
legname. La mia famiglia era proletaria. Ma quando ho detto, al
quarto anno di Agraria, che lasciavo tutto per il teatro, mi
risposero con infinita fiducia e immensa generosità: "Fai quello
che credi di fare". Ecco, quel loro assecondarmi è stata una
lezione di vita. E sono stato libero di mettere le mie economie in
comune coi compagni di lavoro per bollette, benzina, mangiare. La
formula che ho sempre messo a punto è quella dell' artigianato. Io
non mi sento artista. Il senso di quello che faccio oggi c' era
già tutto nel girovagare col furgone come gli ambulanti dei
mercati, stracarichi noi come loro». Poi bisognerebbe dire come e
quando l' uomo-artigiano Paolini è caduto da cavallo, è incappato
in una visione che gli ha cambiato la vita. «Il riferimento è uno,
fortissimo. Quando ho assistito alla Classe morta di Kantor ho
avuto uno shock, sono rimasto disarmato, e ho pianto e riso. Una
cosa rara che ti si mette nel cervello per sempre, che in mezzo a
tanta noia ti produce l' effetto di un innamoramento». Già, l'
innamoramento. Adesso la parola l' ha pronunciata. Sembrerebbe che
Paolini corteggi solo i problemi, gli scandali, le tragedie
corali, i sentimenti duri. Ma dietro quella sua scorza da pubblico
ministero cordiale o da personaggio angosciato, ci saranno pure
gli affetti, o no? «Il teatro è stato anche, ovviamente, una
meravigliosa scusa per darsi da fare. Viaggiare e avvicinare donne
che sai che non vedrai mai più. Innamorarsi di tutte. Sentirsi
autorizzato ad approcci di tipo artistico, e non negarsi poi il
resto. Le affinità sono il motore di ricerca maggiore. E un paio
di occhi di cui innamorarsi te li aspetti, quando giri». Un
teatrante che mette il corpo nel documentare le ingiustizie, crea
anche per sofferenza propria? «Credo di sì, ma forse non è
importante parlarne. Direi comunque che la sofferenza c' è quando
ti ostini a far funzionare qualcosa che non funziona più, e allora
solo il rimanere da soli ti può aprire la testa. La solitudine è
ferocemente creativa, rinascono energie. Quando, all' ennesima
volta, ho capito il meccanismo, mi sono chiesto se era necessario
riattendere il dolore, o se non fosse sufficiente (come lo è)
staccare e farsi un viaggio da soli. Produrre il vuoto senza
fratture». Ora, uscito a settembre il secondo volume de Gli Album
nell' Einaudi Stile Libero, riposerà e studierà sino a fine anno,
e a gennaio riprenderà la tournée col Sergente e con Song n. 32.
«Stratifico, mi vorrei concedere il lusso dell' extratemporalità e
dell' anacronismo, vorrei mettere a frutto il "live", quello che
ricevo dal pubblico, perché il paese vitale è diverso dal paese
reale rappresentato dai media. L' ispirazione più bella nasce da
un coro vigoroso fatto di storia, poesia e passioni, da una
Costituente di identità. E nasce anche dalle frequentazioni:
imbattersi in Meneghello o Zanzotto, discutere qualche volta all'
anno con Erri De Luca con cui ho lavorato in concerto, sono doni
che ti lasciano idee. Ma sto bene anche con amici che lavorano in
fabbrica, con chi coltiva i campi, con chi fa il tassista. Mai, è
la regola, abusare delle confidenze. Le cose durano se sono rare.
M' è bastato un concerto di Bruce Springsteen, e la bellezza m' è
rimasta».
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