"Vi racconto la mia gioventù negli anni '60"
Dimenticatevi per una volta Ustica, il Vajont, la signora Thatcher e tutta la Storia con la "s" maiuscola che Marco Paolini ha raccontato in questi anni. Stasera a Villa Arconati porta in scena la storia con la "s" minuscola: La macchina del capo è la microstoria, la storia di una generazione, quella nata a metà anni Cinquanta (come lui, casualmente), e quindi bambina nel decennio dopo. L’infanzia e la primissima adolescenza di Nicola, tra la famiglia, la colonia, le avventure nel campetto di calcio, l’uomo nero e le scoperte del quotidiano. Cos’è Paolini, un’evasione? «Mettiamola così. È un divertimento, un modo per sentire un po’ di fresco, uno spettacolo da arene estive come quella di Arconati. I testi sono tratti da alcuni miei vecchi Album, i miei primi spettacoli, come Adriatico e Tiri in porta. Li ho riadattati, ampliati, li ho portati in tv, dove sono stati lo spettacolo del Capodanno 2009 di La 7, e adesso eccoli a teatro». L’impressione, visto lo spettacolo, è che solo fino a una certa generazione ci si possa permettere di avere dei ricordi così. Che le generazioni più recenti abbiano ricordi minori, sia di quantità che ovviamente di qualità. «Scusi, ma mi pare un po’ un pregiudizio. Ogni generazione ha il pregiudizio che la sua infanzia e gioventù siano state le migliori e che dopo sia cominciata la tragedia. La verità è che quelle stagioni sono sempre le migliori, nella vita di una persona, perché sono irripetibili». E che senso ha raccontarle? «Il senso del ricordo che arriva a tutti, come i ricordi di mio nonno, della guerra e degli inverni in montagna, arrivavano a me, così questi ricordi miei e della mia generazione arrivano a chi è più giovane. Questi racconti hanno una forza segreta di cui diventi complice. A un patto». Quale? «Che i ricordi siano i più precisi possibile. Quindi niente anacronismi, dettagli accurati, un realismo fantastico come lo definiva Gianni Rodari. Ma io quelle cose le ho vissute. In qualche modo è un recupero della mia gioventù, anzi un recupero al quadrato visto che recupero anche il mio repertorio di gioventù. Se vuole è un gioco: mi sono chiesto se sarei stato capace di rifare quegli Album anni dopo, maturato come uomo e come attore». Insomma, si diverte. «Certo, spero che si diverta anche il pubblico. Però certo che mi diverto. Sono cose briose, simpatiche, leggere che non vuol dire fatue. E un altro divertimento è riuscire a farlo senza fare il bambinone, senza gigioneggiare. Debordare è il rischio maggiore sul palco: già è una malattia dei nostri giorni, il narcisismo, portarla anche in scena sarebbe troppo». Con lei stavolta non ci sono i brianzoli Mercanti di Liquore, a fare la musica, ma il solo cantante del gruppo, Lorenzo Monguzzi. «Guardi, non so come faccio a sopportarlo. Nel senso che avere Lorenzo accanto è come avere Raimondo Vianello, mi fa ridere in continuazione. In realtà è un partner perfetto, con cui c’è intesa immediata, e un partner, non un collaboratore o una spalla. Ma non ne voglio troppo abusare, ha anche lui i suoi progetti senza di me, come io li ho senza di lui».
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