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La Repubblica – Ustica le parole sepolte

Un libro e un video

Vent'anni dopo, ci sono molti modi per raggiungere una verità sulla tragedia di Ustica. Si possono leggere le migliaia di pagine dell'inchiesta del giudice Priore, orientarsi fra le centinaia di documenti e testimonianze, il mare di parole e menzogne spesi da un minuto dopo la scomparsa dai radar del DC9 Itavia, alle ore 20,59 del 27 giugno 1980. E' il calvario che hanno dovuto seguire i parenti delle 81 vittime “insepolte” di quest'altra strage senza colpevoli.
Oppure si può fingere di essere un qualsiasi cittadino del mondo, entrare nel sito web più visitato dai passeggeri aerei americani (Air Disaster.com) e trovarsi di fronte a una brutale verità in due righe: “Itavia 870I Tigi: aereo abbattuto per errore dalle forze aeree degli Stati Uniti mentre stavano intercettando due Mig libici sul cielo di Ustica”. Ma la verità umana, storica di Ustica è altra cosa. Ed è questa l'anima di I Tigi, Canto per Ustica di Daniele Del Giudice e Marco Paolini, oggi pubblicato da Einaudi Stile Libero (pagg. 122, lire 35.000) con la registrazione dello spettacolo tenuto a Bologna per il ventennale.
Una grande storia, anzitutto, “fuori dal comune, perfino nel terribile ambito delle stragi italiane”, scrive Del Giudice. “E' una storia globale, per usare un termine oggi condiviso, coinvolge paesi e nazioni, sistemi di alleanze militari internazionali”. Teatro civile, più che politico, nel senso dell'invenzione di genere di Paolini, dalla celebre orazione per il Vajont all'inchiesta sul petrolchimico di Marghera, scritta sempre con Del Giudice e riportata all'attualità dalla sentenza di assoluzione generale. Una storia vista dal basso, un racconto dove la massa di dettagli tecnici - Del Giudice, com'è noto, è un appassionato di aviazione - non stempera ma aumenta la passione, l'identificazione del pubblico con i Tigi, il popolo di passeggeri scomparso in fondo al mare. “I Tigi o ITIGI, cinque lettere, le marche di contrassegno di quel Dc9... I Tigi, come fossero un popolo antico... Una telecamera sottomarina, otto anni dopo, legge il nome ITIGI in vernice nera, sul ventre dell'ala sinistra, e non c'è più dubbio, i Tigi sono lì, riposano lì, poco distante da una nave romana carica di vetri, da un vascello con cannoni del diciassettesimo secolo, da un caccia Messerschmitt della Seconda guerra mondiale, memoria della storia del trasporto, museo in fondo al mare, museo involontario”.
Cominciamo dall'attualità. C'è un processo in corso su Ustica, che si svolge da un anno nel silenzio, molti documenti sono stati cancellati, alcuni testimoni sono morti. Avete paura che tutto si risolva con un'assoluzione del tempo, per prescrizione, o di fatto, come nel caso del petrolchimico di Marghera?
DEL GIUDICE: “Non sono pessimista. Il processo in corso è un processo serio, istruito dal giudice Priore con un lavoro immenso. Il nuovo rito, che ha imposto di reinterrogare i testi, poteva diventare un intralcio e invece paradossalmente è riuscito a far emergere altri dati, piccole e grandi contraddizioni. Alcuni militari, come il tenente Del Zoppo, uno dei nostri migliori radaristi in forza a Marsala, hanno ammesso che la sera stessa della tragedia le tracce erano state manipolate e ridotte. Certo, il famoso muro di gomma è rimasto in piedi. E il rischio di prescrizione incombe già dai prossimi mesi, almeno per alcuni reati. Quello che mi preoccupa di più è l'indifferenza e il silenzio dei media. Lo spettacolo di generali che si avvalgono della facoltà di non rispondere davanti a un tribunale della Repubblica è qualcosa che dovrebbe fare notizia”.
Nella difficoltà di arrivare a una verità con vent'anni di ritardo c'è comunque qualcosa di certo, di provato, che è impossibile ignorare?
DEL GIUDICE: “C'è che un aereo civile è finito, senza saperlo, in un teatro di guerra, una guerra non dichiarata, illegale. E nessuno dei molti centri che ne seguivano il volo è intervenuto. Anzi, da un minuto dopo, si sono affannati per cancellare i tracciati dei radar, che in questa storia sono le impronte digitali”.
Raccontate di essere stati a Pratica di Mare, nel capannone che ospita i resti del Dc9 e, incredibilmente, accanto anche i resti di un Mig libico.
PAOLINI: “Un Mig che, secondo la versione ufficiale, sarebbe caduto venti giorni dopo in Calabria. Ma allora perché sta proprio lì, accanto al Dc9? Basta farsi queste semplici domande”.
I Tigi è pieno di domande, più che di risposte. Domande ostinate, fatti e dettagli che rispondono alle domande e aprono nuovi interrogativi. Dal piccolo particolare tecnico fino allo scenario internazionale del 1980, l'anno dell'occupazione russa dell'Afghanistan, della sfida di Gheddafi. Non c'è una morale finale, come nel teatro politico. Il racconto si conclude con le ultime voci della scatola nera, una barzelletta, rumori di fondo, un colpo e un urlo spezzato: Gua...”.
PAOLINI: “Il rischio era la retorica. E di fare domande retoriche, con la risposta incorporata. Ci rivolgiamo a un pubblico che crede di sapere già la verità su Ustica ed è facile e comodo scivolare in un comizio, nell'invettiva. Ma allora non c'è più racconto”.
La forza etica deriva piuttosto da come avete messo in ordine un materiale sterminato.
DEL GIUDICE: “L'etica di una storia deve sempre scaturire dal come, è perfino banale ricordarlo. Abbiamo parlato soltanto di fatti certi, provati, escludendo ogni ipotesi, discutendo per ore di un singolo dettaglio. Ci siamo concentrati sul volo, il racconto di un volo. Era l'unico modo, Come diceva un personaggio di Conrad: io mi occupo soltanto di fatti”.
PAOLINI: “E' il metodo di un'inchiesta classica. Il giudizio, se vuole, lo dà il pubblico”.
E' qui il successo del teatro di Paolini. In fondo, si tratta di inchieste storiche o giornalistiche.
PAOLINI: “Ho il vantaggio che in Italia storici e giornalisti sono troppo carichi di ideologia. Perfino i tecnici lo sono o comunque rispondono a logiche di parte. Da noi le perizie sono tutte di parte. Si impiegano tempi biblici per arrivare a sfornare perizie contrapposte. Nel caso del Vajont era impossibile trovare un geologo che non avesse lavorato con le aziende coinvolte. In un quadro come questo, io mi limito a pormi liberamente le domande del cittadino normale e poi provare a cercare le risposte. Senza pontificare e senza inventarsi giallista. E' quello che farei comunque, per curiosità, per voglia di ficcare il naso. Che sia diventato il mio lavoro, una cosa per cui addirittura mi pagano, è un fatto che non smetterà mai di stupirmi”.
Ma non è una sconfitta della società italiana che le inchieste non le faccia l'informazione ma il teatro, che la storia recente non la scrivano gli storici ma i magistrati?
PAOLINI: “E' una questione di rapporto con il pubblico. Per l'informazione e non parliamo del potere politico o militare, il cittadino adulto non esiste. E' un bambino al quale uno stato paternalista, in realtà ancora più bambino, può raccontare sempre le bugie più incredibili. Guarda ora come rispunta il tema del patriottismo. Con la pretesa infantile di esibire una bandiera in ogni balcone. E' un patriottismo da balilla che offende l'intelligenza, la maturità di un popolo, lontano anni luce dal senso di patria di altre nazioni. Perché dobbiamo celebrare ancora gli ossari e non invece buttarli giù e fare dei parchi della rimembranza, come negli altri paesi? Così tutto si riduce a retorica e a una questione di immagine, è un modo di correre dietro alla pubblicità in modo artigianale. Per me Pasolini è stato molto più patriottico di tutti i nostri presidenti della Repubblica”.
Lo Stato però si è presentato nella storia di Ustica con due facce, quella autarchica dei militari, pronti a negare l'evidenza, e quello del giudice Priore, il coraggioso magistrato che ha sfidato quasi da solo i santuari del potere.
DEL GIUDICE: “E' un personaggio straordinario, un simbolo di quella parte minoritaria della magistratura che in questi anni ha dovuto, non voluto, scrivere la vera storia di questo Paese. Tutto meno che un politico. Piuttosto, il genere di servitore dello Stato che in Italia finisce inevitabilmente per indossare i panni dell'utopia, dell'eroe solitario. Nel suo caso, non aveva neppure un pool alle spalle, ha lavorato da solo ed è riuscito a portare davanti ai tribunali quattro generali con l'accusa di alto tradimento, una cosa mai successa nel dopoguerra. Per rispondere alla domanda, non è normale che in un paese la storia la scrivano i magistrati e non gli storici. Ma è una fortuna che almeno la scrivano loro. L'alternativa è questo passato che non passa, questi morti delle stragi che rimangono insepolti, fantasmi che pesano sulla vita pubblica. Perché fin tanto che non si arriva a una verità, a una qualche giustizia, quei morti non puoi seppellirli, non puoi elaborare il lutto”.
La difficoltà maggiore di questa inchiesta, come di tutte le inchieste italiane, è bucare la logica dei poteri separati. In fondo, i militari, tacendo la verità, pensano di fare il loro mestiere. Rispondono a una etica distorta, particolare, ma è l'unica cui sentono di dover obbedire. Sono paradossalmente in buona fede. Come i politici che pensano di dover rispondere soltanto alle leggi machiavelliane della politica, gli imprenditori che dicono che la corruzione fa parte degli affari.
PAOLINI: “E' un delirio di onnipotenza, un comportamento da autocrati. Nessuno mai deve disturbare il conducente, fare domande. L'esatto contrario della democrazia, dove ogni domanda è lecita. Ma è un comportamento incoraggiato e protetto dall'impunità assoluta, secolare. Questa è gente che non ha paura, perché non ha mai pensato, un solo istante, di finire in prigione, di pagare per quello che aveva fatto. Sanno che l'Italia funziona a questo modo”.
DEL GIUDICE: “Il fatto tragicomico è la reazione del potere politico. Che non ha sempre coperto, ma neppure si è appellato alla legge superiore e condivisa. Rispetto all'omertà dei militari, i politici si sono semplicemente vendicati, hanno reagito a loro volta come un corpo separato dello Stato. Per quindici anni nessun capo di stato maggiore è venuto dall'Aeronautica. Una punizione non dichiarata, un avvertimento da chi sa a chi sa”.
Qualche politico, per la verità, ha anche provato a bucare il muro di gomma, con scarso successo.
DEL GIUDICE: “Soltanto Giuliano Amato e gli va riconosciuto, prima da ministro e poi da premier, ha insistito perché si arrivasse alla verità su Ustica. Anche cercando di fare pressioni sugli americani”.
PAOLINI: “Più che pressioni, parlerei di preghiere...”.
DEL GIUDICE: “Sì, il tono era un po' da vassalli, ma dati i rapporti con gli Stati Uniti...”.
Questo vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti è un dato costante che non riguarda soltanto Ustica. Nel caso del Cermis, per esempio...”.
DEL GIUDICE: “Sì, e a volte non è neppure giustificato. In definitiva siamo più colonia noi di quanto vogliano essere colonizzatori gli americani. Nel caso del Cermis, quando il governo D'Alema si è deciso a chiedere il risarcimento per i familiari, l'ha ottenuto abbastanza rapidamente”.
PAOLINI: “Il nostro livello di autostima, come popolo, è penoso. Montanelli diceva che all'estero considerano l'Italia come un posto bellissimo disgraziatamente occupato dagli italiani. Ma è un risultato della politica estera delle nostre classi dirigenti. Ancora continua l'equivoco di Sigonella, il pugno sul tavolo di Craxi, che passa per un grande atto di autonomia, quando era appena un gesto teatrale”.
DEL GIUDICE: “E' desolante dover ammettere che i governi italiani in vent'anni non hanno saputo o voluto fare quello che il governo dell'Ucraina ha fatto in mezz'ora, quando è stato abbattuto per sbaglio un aereo civile. Chiedere l'uso del satellite e arrivare alla verità subito. Ancora due anni fa Amato, che è stato comunque l'unico a provarci, doveva prendere carta e penna e scrivere suppliche a Clinton, a Gheddafi, a Chirac per ottenere briciole di verità”.
PAOLINI: “Forse sarebbe bastato chiedere informazioni agli americani, rivolgersi con un Freedom Information Act direttamente all'Fbi. Anni fa se n'era interessato Gary Hart, l'ex candidato democratico alle presidenziali, ma costava moltissimo consultare un grande studio americano e l'associazione dei famigliari ha dovuto rinunciare”.
Molta storia è passata da quel 1980 di Ustica, della stazione di Bologna, dello scontro finale fra mondi con l'Italia sulla frontiera. Sono caduti i muri e qualche segreto con loro. Ma rimane attuale il ruolo dell'Italia nei confronti degli Stati Uniti, dell'Europa e del Medio Oriente. La guerra è un'occasione per interrogarci o per rimuovere del tutto la questione?
PAOLINI: “Temo che sia un altro modo per cancellare la memoria, nell'eterna emergenza. Il problema è che finché non ci interroghiamo su chi siamo davvero, è inutile stare a discutere di come ci guardano gli altri”.
DEL GIUDICE: “Sono purtroppo d'accordo. Bisogna recuperare la nostra memoria. In fondo la questione è sempre la stessa del 1980. Se l'Italia sia soltanto "una portaerei nel Mediterraneo", come volevano i generali americani, o non piuttosto "un ponte di democrazia verso i paesi arabi", come diceva Sandro Pertini. Il modo in cui siamo entrati in guerra è da semplice portaerei”.

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