Marco Paolini: un “Bestiario” poco Serenissimo
Tra vernacolo e comunità più ampia. “Intellettuali, nuovo impegno contro la globalizzazione”
Il vernacolo come legame alle cose e alla nostra storia. Ma poi un sentire più ampio: il Paese, forse, ma soprattutto l’umanità
E il Veneto alienato della industria diffusa. “La tentazione di chiamarti fuori”. Ma le domande: “Dove semo? De chi situ”
“L’idioma è la base verbale per cui l’uomo riconosce se stesso, trovarsi dentro un idioma vuol dire trovarsi dentro il proprio io, self”. E poi: “Avere un idioma significa conservare il senso di un’identità che però non creda di sopravvivere distruggendo le altre identità, se no si scivola nell’idiozia più totale, nella distruttività totale che è quella delle cosiddette pulizie etniche”. Insomma, il dialetto è stato ed è per decine di milioni di italiani il modo stesso di essere e di vivere nella storia. Ma questo riconoscimento che porta ad una riscoperta, forte, delle radici, non rifiuta affatto una identità più ampia che, se alla fine sconfina nell’umanità, in questo 1999 e qui, può almeno confluire nella riscoperta di una terra comune. La chiameremo Italia. Potremo chiamarla patria?
Le parole virgolettate riportate sopra sono di Andrea Zanzotto, frutto di una intervista riportata in uno dei libri più intriganti scritti negli ultimi tempi: “Bestiario veneto. Parole mate” di Marco Paolini (con contributi di Daniela Basso e Carlo Cavriani), Edizioni Biblioteca dell’Immagine, lire 20.000. Marco Paolini, “attore e narratore” bellunese (come ama definirsi) che aveva già messo in scena e poi sulla pagina “Racconto del Vajont” e “Il Milione”. Marco Paolini, quell’attore che racconta storie assolutamente non fantastiche, anzi, che ha riportato il teatro all’impegno civile, a porsi coscienza attiva della comunità.
L’intervista a Zanzotto
Ora il nuovo libro. Una serie di annotazioni sul Veneto della rivoluzione industriale. Ma anche una profonda riflessione che, partendo dal dialetto e dalle radici regionali, riscopre la necessità di riconoscersi in una comunità più ampia. Nel libro il lettore troverà pagine di poesia, dialettale e non, di Marin, Zanzotto, Noventa, Calzavara. E una lunga intervista con lo stesso Andrea Zanzotto e continui riferimenti all’altro “immenso” della letteratura moderna italiana, Luigi Meneghello. Tutta gente che è partita dalle radici, dal dialetto (non solo le poesie di Marin e Calzavara ma il più bel libro italiano degli ultimi cinquant’anni, “Libera nos a malo” di Meneghello) ma che non si è fatta chiudere nell’angolo del particolarismo dalla sua ricerca, dal suo affetto per le radici. Che ha allargato lo sguardo. Meneghello, ad esempio, partecipò alla Resistenza (ecco il libro, ora film, “Piccoli maestri”) e ci ha lasciato le pagine più caustiche ma anche nostalgiche, di certa cultura scolastica italiana (“Fiori italiani”).
Ma è anche dell’altro il libro di Paolini. Una riproposta dell’impegno dell’intellettuale a cambiare la società. Ecco allora, tra l’altro, quelle interviste a fine libro ad immigrati che lavorano in Veneto, o a operai veneti. E lo scoppiare, sulla pagina, dello sfruttamento dell’industria globalizzata, della perdita di senso di una vita votata alla produzione, del dolore lancinante dell’uomo costretto alla macchina (ma anche alle mani del padrone sul culo se si tratta di operaie belle) ed alla alienazione a suo tempo raccontata da Marx, dalla Scuola di Francoforte e da Robert Blauner.
Il dialetto è la base di partenza del nuovo libro di Paolini. Ma un dialetto che si interroga: “Ma dove semo cuà? Ma de chi situ ti?”. Lingua che va rapida: frasi brevi, spesso sempre un solo verbo. Come il suo teatro: a scatti, a volte rabbiosi, a volte di sogno. Il Veneto iperindustrializzato è raccontato con l’ironia dolorosissima di Paolini: “Una volta di qua e di là del Piave ci stava solo un’osteria. Adesso ci sono i più forti distretti d’Europa”. Abitati dalla gente più produttiva d’Europa: Io non le trovo le parole per parlare con questi della mia gente, questi che “Londra bisogna andarghe se no ti si un ebete”, questi che incassetta tacchini eviscerati, che monta il pannolino al motocompressore del frigo per l’imballaggio; questi che ha la ditta istallatrice con esperienza decennale che fornisce in opera caldaie murali a tiraggio forzato e camera stagna indipendentemente dal sanitario che è modulante. Poi tutti insieme salgono sulla Pontebbana a cacciare la donna nera o dell’est”. Parlano il dialetto. Certo. E sono lavoratori. Certo. Ma “tra Bassano del Grappa e Pordenone ci sono le sette sataniche, solo a Torino e Roma ce ne sono di più e tra il Montello e Mestre è cresciuto il fiore della meglio gioventù stragista di questo dopoguerra”.
Le radici, il dialetto. Paolini lo usa, a tratti, sulla pagina e in teatro. “Non ho nostalgia, però un po’ paura di aver disimparato qualcosa di importante”. Almeno una intera generazione che ha scalato la modernità in frettissima, ha perso il dialetto, le radici. Ma ha perso per strada anche il senso della vita, dell’impegno nella vita. E Paolini si ferma, torna indietro. Come avevano fatto Meneghello, Zanzotto: “Le parole sono qualcosa di diverso dai concetti, le parole sono le cose, mi serve una lingua per raccontare le cose, ‘un parlar fondo come un basar’. Il dialetto è incavicchiato alla realtà, è uno strato fondo, chi ce l’ha quando tocca certe parole sente un lampo ‘sgiantìzo’. È qualcosa che è difficile da spiegare a chi non ha il dialetto”. E tutti noi, ai nostri figli, non abbiamo insegnato il dialetto. E nemmeno l’impegno sociale dopo che ci siamo ritirati nel privato.
Noventa: “Serché più in là”
Allora il sublime suggerimento del poeta Noventa: “Ma la parola che pur me resta/ché, sugerirve: çerché più in là”.
Veneto. “Strade morte, palazzi interi vuoti, case vuote. I centri storici del Veneto tavernicolo diventeranno uno ‘zoocity’ per passeggiare la domenica. Niente lenzuola stese ad asciugare, niente fiori, niente bambini”. E il centro di Trento? - diciamo noi - non è morto già da 20 anni? E di bambini qui non se ne vedono più e nemmeno donne gravide. C’è altro da fare, in Veneto e in Trentino: “C’è droga nell’aria, non so se è il lavoro o l’‘extasi’. Come faranno i veneti a stare in pi, 12 ore, a lavorare più dei Giapponesi? Semplice, passa due giorni durissimi ma sobri. A tirar tardi in discoteca sabato e domenica. Il lunedì mattina ‘els-inpastica’ fino al venerdì pomeriggio, sballa sul lavoro, produce il doppio ed è felice”.
Ma è di Veneto che parla Marco Paolini? “Potrei parlare anche di Emilia, di Marche o di Campania, di Piemonte o di Toscana...comunque le ‘mie parti’ sono di chi ci vuole venire e non solo di chi ci è nato”. Il riferimento può essere anche più preciso: “La memoria di cui mi occupavo era una memoria collettiva, in buona parte perduta da un paese che allegramente canta in coro: ‘Chi ha avuto avuto avuto, chi ha dato dato, scordiamoci il passato’”. C’è un “io comunitario” dietro la ricerca di Paolini e della miglior ‘inteligentsjia’ veneta. Forse di più, qualcosa che assomiglia alla voglia di ritrovarsi a far parte di un Paese. L’Italia, il Paese in cui il concetto di patria è stato secolarmente contrastato dalla potenza della Chiesa che ha sopportato lo Stato, dall’internazionalismo marxista che nello Stato vedeva una costruzione borghese. Quindi dal fascismo che cianciava di Patria e gettava il Paese nell’abisso. Infine la Lega che dietro al dialetto e al principio di sussidiarietà ha celato gli interessi di quei ceti economici che lo Stato lo misconoscono per non dover pagare le tasse.
“E ti viene la tentazione di chiamarti fuori. No, col cavolo, io non mi chiamo fuori: questa è la mia città”. E per non chiamarsi fuori Marco Paolini aggiunge al suo Bestiario una splendida intervista a Zanzotto che parla di “una ulteriore guerra mondiale che riguarda l’opera di omologazione gestita dal capitale finanziario, ma non solo da questo, e che inserita nel mito della globalizzazione, devasta a casaccio il mondo per creare nuovi consumatori i quali consumano anche se stessi”. Poi le interviste agli operai che parlano della loro Caienna. Per dire che è ora che un paio di generazioni escano da quel “privato” in cui si erano rinchiuse.
La domanda ora viene in dialetto trentino: ‘Ma n’do sente qua? Ma de chi set ti?’.
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