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L’Arena di Verona-Paolini, un ardore da Sergente. Rielabora alla sua maniera l’opera originaria e la narra con dolente energia.

“Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato”. Quando il narratore, in questo caso Marco Paolini, cede il passo e lascia la parola allo scrittore –Mario Rigoni Stern – le vicende e le vicissitudini di uomini mandati, nell’inverno 1942-43, a soffrire e a morire nel gelo della Russia, assumono subito un valore in più, quello della testimonianza più sofferta, più cruda, più realista, quella cui bastano anche solo pochi tratti, una pausa, per dire di un dramma individuale e collettivo insieme. Così, anche e soprattutto per la forza della parola “letteraria”, lo spettacolo Il Sergente, che ha debuttato l’altra sera in un Nuovo particolarmente affollato tra un pubblico che ha tributato al suo artefice, Paolini appunto, ripetuti, entusiasti applausi (fin dalla sua apparizione in scena) ci ha colpito.

Ma diremmo che, al di là dell’indubbia maestria di un interprete che è efficace affabulatore, coinvolgente cantastorie, sapiente raccontatore, sono le frasi, al “materia viva” offerta da Mario Rigoni Stern e dal suo libro Il Sergente nella neve a incidere nella resa finale dell’allestimento. Un allestimento nel quale, tuttavia, il grande autore vicentino resta come sottotraccia: è filo conduttore, inizio e fine, “pretesto” quasi, per un dichiarato omaggio che Paolini aveva profonda e urgente necessità di dedicargli. L’attore bellunese, infatti, si sovrappone allo scrittore, rielabora e manipola il racconto, ne amplia il respiro inserendovi una personalissima impronta (non priva di qualche lunghezza di troppo e di qualche compiacimento) fatta di impasti dialettali, di battute prese pari pari dall’oggi, di tempi storici che si mescolano, si confondono, si intrecciano.

Al sergente Rigoni Stern, autore di uno struggente, potente diario di quella triste pagina della nostra Storia che fu la ritirata dell’esercito italiano attraverso la steppa, si affianca così l’osservatore di oggi. Ecco allora palesarsi Paolini, una sorta di appassionato cronista dei giorni nostri che descrive le tappe di un recente viaggio fatto sul Don, proprio negli stessi luoghi che furono teatro di drammatici eventi, culminati nella battaglia di Nicolajewka.

Le due differenti “anime”, i due diversi piani che, nello spettacolo, si intersecano continuamente sono simboleggiate innanzitutto da quei trenini in miniatura (il viaggio dei soldati di ieri, il viaggio dell’attore di adesso) che subito appaiono su una scena dominata da una cartina geografica dell’Eurasia. Dall’altra parte c’è una fittizia macchina da scrivere, testimone sonora cui affidare le memorie ma anche le annotazioni attuali, utilizzata da un alter ego dello stesso Paolini, il giovane Marco Austeri.

Ecco allora che, ora in abiti moderni ora in un logoro cappotto, l’attore dà volto ai vari soldati; al tenente Cenci, al caporalmaggiore Moreschi, all’alpino Tourn , allo stesso Rigoni Stern costretto ad assumersi il doloroso fardello del comando. Sono uomini disperati , congelati, stremati, privi di armamenti adeguati (una mitraglietta fine Ottocento è il loro strumento più potente); uomini rassegnati, desiderosi solo di tornare a casa, vicini alla morosa “che pela patate”.

Sono uomini “muti come ombre”, “soli come un sasso”, che non hanno più voglia di “retorica e di politica”, ma che chiedono ripetutamente a sé stessi e ai Potenti che senso abbia quella guerra. Le guerre.

Nella veemenza delle parole e nell’enfasi commossa con cui legge brevi tratti del libro di Rigoni Stern, emerge l’invettiva di Paolini contro ogni tipo di conflitto. Di frase in frase, di ricordo in ricordo, la tensione cresce, si alimenta finchè si stempera nel finale dell’atteso ritorno a casa. E allora da quella scenografia a specchi, che sin qui ha rimandato i bagliori di una neve incolpevolmente nemica, spunta l’eco di un canto di donne, di voci femminili che escono da una radiolina che Paolini porta sul petto. E’ il richiamo della casa e dell’agognata “normalità”.

Le musiche di Uri Caine e uno scenario efficace nella sua sobrietà che accompagnano con grazia una storia dolente e aspra, che Paolini racconta bene, con calore, foga, ironia, ma anche, laddove necessario, con pacatezza e toni sommessi. Se però lasciasse da parte qualche personalismo di troppo, se rinunciasse a qualche ammiccamento verso il suo (pur amatissimo dal pubblico) tradizionale repertorio e verso battute troppo attuali (l’accento ai derby di calcio o allo Zecchino D’oro, per esempio), lo spettacolo sarebbe ancora più intenso.

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