Questo radichio non se toca". Si tratta del simpatico ed accattivante titolo dell'ultimo video di Marco Paolini, uscito per Einaudi insieme a "Mappa Mondo", primo libro sul teatro dell'artista veneto scritto da Fernando Marchiori (pp. 172, euro 19 l'intero cofanetto). Nel film realizzato insieme a Giuseppe Baresi l'attore racconta il diario di un'estate di lavoro, quella del '98, durante la quale venne realizzato "Il Milione" e "L'orto", seconda tappa del "Bestiario Veneto", «uno spettacolo sul Veneto e sui veneti - come scrive Marchiori - sul dialetto e sui dialetti, sugli stravolgimenti e i tic, il progresso economico e la regressione culturale.»
L'arrivo nelle librerie di questa interessante proposta è l'occasione per parlare con lo stesso Paolini del significato del suo lavoro che sempre più, con il passare degli anni, ha assunto le caratteristiche di un impegno civile sui problemi più scottanti che hanno afflitto e affliggono il nostro paese.
Marco, nel libro "Mappa Mondo", Marchiori fa un'interessante distinzione tra il tuo teatro e quello della tradizione novecentesca, da Piscator a Brecht fino a Dario Fo. Il tuo, secondo il critico teatrale, non è un teatro ideologico come quello dei grandi autori che ho appena nominato. E' un teatro dove «il racconto non ha a priori una tesi da sostenere». Eppure il tuo è un lavoro di denuncia civile e politica. Ci puoi spiegare meglio questa differenza?
Certamente tutto quello che faccio è profondamente politico, ma non ha una tesi. Nel senso che io non sono portatore di una visione scientifica. Il mio è un lavoro che può essere definito di identità, che per me è un modo di ragionare tramite il quale costruire anche la politica. Tutto il mio lavoro è fortemente identitario, finalizzato alla ricerca di una identità. Anche se parlo di radici leggere e non di radici di sangue. Parlo di terra, ma mai in maniera ermetica, chiusa, mai di una linea da difendere con una trincea, ma bensì di un ponte, di un passaggio, di qualche cosa che si apre. Partendo da questo punto di vista ho chiamato "civile" il mio teatro perché, per esempio, mentre quello del Brecht poteva passare in bocca a degli attori il mio ha invece bisogno di testimoni.
Marchiori aggiunge che nel tuo teatro «l'indignazione non è mai disgiunta dalla pietas, le parole della denuncia non vogliono coprire il silenzio dei morti.» Sei d'accordo con questa valutazione?
Sono d'accordo, nel senso che in generale non cedo mai alle ragioni del sangue e cerco di comprendere le ragioni profonde dei contendenti. Io sto lavorando su Omero e da questo punto di vista se ci pensi, l'Iliade non sta da una parte sola. La grandezza della tragedia è quando riesce ad identificare gli eroi di entrambe le parti, anche se poi ovviamente nella storia tu scegli, e io parto sempre dalle ragioni di chi è stato schiacciato dalla storia, di chi ha subito. Anche se facendo questo poi nella scrittura cerco di non dimenticare quelli che possono essere i deliri o gli slanci di grandezza delle parti e dunque anche degli oppressori.
In che misura questo discorso dell'ideologia ti riguarda?
Io ho scritto un po' di tempo fa che ho smesso da molto tempo di essere di sinistra. Io voglio essere per qualche cosa e non di qualche cosa. La mia non è mai un'appartenenza sistemata per il futuro, ma va verificata di volta in volta.
I tuoi spettacoli, anche se sono seguiti in gran parte da persone connotate politicamente e magari di una certa generazione - quella degli anni '70 per intenderci - riesce tuttavia a parlare ad un pubblico molto più ampio...
E' assolutamente importante per me avere davanti non solo quelli che la pensano come me. Io non mi rassegno alle battaglie perse, non mi rassegno all'autismo, non mi rassegno ad una cultura che è contenta di egemonizzare un ghetto. Io so che qui in Veneto quando entro in un teatro molta parte della gente che ho davanti vota Lega. E io imparo tantissime cose ragionando con persone così.
Hai citato la Lega. Proprio nel libro Marchiori parla di come tu hai ridato dignità al dialetto veneto proprio quando i leghisti hanno cominciato ad utilizzarlo con delle finalità razziste...
Se da un lato io posso cercare di apprendere dalle persone che non la pensano come me, dall'altro i deliri scolastici e un certo revanchismo localistico sono qui un pane quotidiano nei confronti del quale cominciamo purtroppo ad avere un senso di assuefazione, come se bisognasse rassegnarsi alla stupidità.
E tu come reagisci?
Nel momento in cui le cose vanno in cronaca e sono sparate sui giornali, preferisco stare zitto. Mi piace parlare dopo. Da questo punto di vista il mio non è un atteggiamento da militante, è un atteggiamento da drammaturgo. Io non funziono molto come militante, sono inattuale.
Ovvero?
Nel senso che arrivo sempre dopo sulle cose. Ma è nella natura del mio lavoro. Io non voglio fare degli "instant book". Di solito ci metto un po' a capire le cose e quasi sempre capisco quando riesco a confrontarle con un quadro che è quello che ho dentro la testa. In questo modo, quando costruisco poi l'affresco, il ritratto, ho già visto le notizie decantarsi ma è bello perché mi ricordo quando erano in cronaca e mi immagino che lo stesso meccanismo di attenzione e disattenzione sia presente nella testa di altre persone. E quindi capisco anche le ragioni del perché vale la pena di continuare a farlo.
Marchiori definisce il tuo un «teatro-mondo in quanto del mondo vuole essere una mappa possibile». E infatti per te la cartografia è un punto di riferimento importante, un modo per non perdersi...
Così come il lavoro sulla memoria, così come le storie, il modo più giusto per raccordare il presente è quello di lavorare sull'idea delle mappe, piuttosto che quello di fare dei documentari o dei film perché io non ho quell'arte. Io non sono un cineasta e neanche uno scrittore e dunque quello a cui mi piacerebbe assomigliassero le mie cose sono delle mappe sonore. Per far sentire la voglia delle cose.
Nel mondo del terzo millennio le ingiustizie che tu denunci sono aumentate drammaticamente. Questo vuole dire che è aumentato anche il materiale per il tuo lavoro?
Sarebbe un delirio di onnipotenza che farebbe solo del male. Il lavoro è il lavoro, la missione è un'altra cosa. Io non sono un santo, e quindi ho la misura che c'è un equilibrio tra il lavoro che faccio e la vita che faccio e cerco di non vergognarmi di nessuna delle due.
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