tratto

Limoni

Norma aveva il busto ortopedico, Milena l’apparecchio per i denti e Maria Bellotto un occhiale con una lenta tamponata perché doveva correggere la vista. In tre formavano una macchina da guerra, erano le tre più carine della parrocchia. Si sentiva che era davvero così, le femmine ad un certo punto dello sviluppo sono come crisalidi. Poi sbozzolano via bellissime e se le cucca qualcun altro, per questo a me quelle troppo perfette non sono mai piaciute.

Erano state le prime a venire alle riunioni del circolo culturale sfidando Don Bernardo e famiglia. All’epoca non mi ero ancora deciso, ma ero più orientato per Milena, anche per il fascino meccanico dell’apparecchio dentale.
Ma era vero che baciandola c’era il rischio di restare incastrati con la lingua tra i ferri?
Parlando faceva un leggerissimo sibilo salivare tra le esse e le ci che mi dava un brivido di piacere sottopelle, era un rumore così discreto che ero convinto di essere l’unico a sentirlo. Era il richiamo della Milena.

Se non mi ero ancora deciso era colpa dello strabismo di Maria, della Bellotto. Lo strabismo di Maria si chiamava così per distinguerlo da quello di Venere. Generava una confusione totale nell’interlocutore, perché invece di incrociare le pupille sul piano orizzontale, Maria era strabica in verticale e mentre l’occhio sinistro ti guardava francamente in viso il destro si fissava con insistenza a curiosare fra le gambe.
Maria parlava senza malizia, ma il nostro era un pensiero fisso. Cosa vedeva o anzi cosa guardava ci si chiedeva durante i giri in bicicletta sulla strada del circolo, quando fumare, parlare, vantarsi, leggere il giornale pedalando senza mani, discutere di internazionalismo, di rivoluzioni gigantesche o erezioni avute alle riunioni era il modo straordinario di prolungare il tempo e farlo durare ancora e ancora. Tra noi quando si arrivava a parlare del destro della Bellotto era chiaro che si parlava di occhio e non di pugno.
Cosa guardava? E se la Bellotto avesse avuto sul destro al vista di Nembo Kid, se avesse trapassato i vestiti e ci avesse misurato ad uno ad uno come fossimo stati nudi? Lei sapeva la classifica reale di chi l’aveva più lungo, non quella ufficiosa fondata sulla fiducia inverificata delle automisurazioni fatte in proprio con comodo senza obbligo di testimoni. Solo la Kriptonite avrebbe potuto darci la certezza di essere stati da lei scoperti, ma avevamo a disposizione solo del carburo che non serviva a smascherare i superpoteri.

Erano quasi donne, occhiali e apparecchi a parte, erano già dotate di gambe, tette, culo, parole che si potevano pronunciare solo tra noi e fuori riunione non solo perché non erano politically correct, ma soprattutto per le durissime contestazioni che il femminismo cominciava a portare a chi le usava.
Loro dicevano ‘figa!’ Esattamente come noi dicevamo ‘cazzo!’ Lo dicevano per un po’ diligentemente e noi eravamo intimiditi e ammirati dalla novità linguistica, si sentiva il gigantesco sforzo culturale che stava dietro questa novità.
Poi quando la guardia si abbassava scappava fuori anche a loro il primo ‘cazzo!’ (Figurato eh, figurato) ed era l’inizio. Rotta l’esile diga ideologica si tornava all’antico.
Il linguaggio non è solo maschilista, è soprattutto conservatore, prevede i generi, i ruoli, come il ballo liscio.

Norma era liscia davanti e dietro per via del busto che la soffocava. Faceva movimenti di tutto il corpo anche per piccoli spostamenti laterali. Era un busto fisso, glielo rifacevano da anni, da quando mi ricordo di Norma, alle medie, aveva il busto, mai vista senza.

Erano amiche, inseparabili, ma nessuno degli altri faceva sogni dietro a Norma. A me piaceva ma non osavo nemmeno pensarlo, figuriamoci dirlo agli altri.

Alla campagna elettorale del ’75 avevo 19 anni, le cose cambiavano in peggio, mese per mese, stavano arrivando anni anche peggiori ma per me gli scontri fisici di quella primavera, le cariche, il fumo e i colpi di pistola nelle vie strette e sotto i portici sono lo spartiacque della mia vita, la scelta di campo, ma anche la fine dell’adolescenza, il rifiuto totale delle armi, ma anche la resistenza ad ogni forma di abuso, sopraffazione, violenza sociale, economica, politica e istituzionale.

Il giorno che il mio amico Barbin entrò in coma per i colpi ricevuti in piazza (ci restò due giorni e poi tornò in qua) non fu quello l’evento che mi lasciò il segno più duraturo.
Ero arrivato in piazza dopo gli altri perché il treno che mi riportava a casa dopo l’università era in orario. Calcolavo di riuscire a prenderlo perché era sempre in ritardo. Invece quel giorno no. Col treno successivo ci avevo messo il doppio; in piazza c’erano già stati tafferugli e il clima minacciava temporale.
I fascisti occupavano il palco e il centro della piazza per il comizio. I poliziotti facevano cordoni tutto intorno. I contestatori urlavano, io volevo raggiungerli, unirmi a loro, ma non li vedevo; c’erano troppi curiosi a guardare da sotto i portici e nessuno voleva cedere il posto.
Poi vedo Norma. Ero stato via, avevo saltato riunioni, saranno stati due mesi che non la vedevo: era diversa. Norma era senza busto, era leggera, si muoveva con potenza che scattava sotto le suole, mi passa vicino, mi giro ed è già dieci metri più avanti, la chiamo, non mi sente, le corro dietro. Lei cammina, io sembro fermo. Sta andando verso il cantone, le voci vengono da lì dietro, ecco dove li hanno ricacciati, Norma sta andando verso i miei compagni.
Norma!
Ha sentito, si gira, mi vede. Ha le braccia piene di limoni, li tiene abbracciati come se la carta si fosse rotta. Dura un secondo quello sguardo, dura il silenzio breve che precede il primo lacrimogeno a cui risponde l’urlo dei bersagli. Siamo nella terra di nessuno, nello spazio vuoto tra le file, la gente adesso corre, si tira via, qualcuno lo fa con calma, tra poco questo sarà terreno di uno scontro, ma in questo momento è il posto giusto: nessuno ci bada.
Mi avvicino a lei, anche sotto la maglia è piena di limoni dappertutto: spuntano dalle tasche, dalle braccia, mi son perso, vorrei dirle qualcosa.
Lei è più pratica, alza la maglia, mi scarica i limoni tra le braccia, cadono tutti tranne due che sono suoi e che le restano attaccati davanti, ad una bella altezza. Li fisso svanire nel fumo dei lacrimogeni e lei taglia un limone e me lo offre.
No, grazie – dico.
Scemo – fa e mi mostra come usarlo.
È stato allora credo che mi sono innamorato.

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