Ci sono favole scritte per i bambini. E favole fatte a misura di civiltà intere. Quella di Ulisse è tra queste. Illuminato da Omero, Dante, Joyce e chissà quanti altri, il profilo dell'eroe greco torna a dare luce a temi che, millennio dopo millennio, l'Occidente ha fatto suoi e interiorizzato: la necessità del viaggio, la sete di conoscenza, la complessità della psiche. A raccontare oggi la figura di un eroe antico e sempre contemporaneo, c'è Marco Paolini. Uno che di storie, se ne intende. "Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse" è lo spettacolo che da stasera, al Rossetti, presenta un Paolini fedele al suo stile di narrazione, eppure diverso da come siamo abituati a vederlo. Non più solo in scena, oratore civile. Ma insieme a altri: attori, cantanti, musicisti.
«Un musical, l'ha definito il regista, Gabriele Vacis» mette subito in chiaro. «Io non lo grido forte, ma trovo che sia una definizione giusta».
Di storie, Paolini ne ha raccontate tante. Le storie di un'Italia devastata dai suoi mali: Vajont, Ustica, Marghera.
Quelle di uomini e donne che hanno lasciato un'impronta sulla vita di tanta gente: da Marco Polo a Margaret Thatcher. Anche storie molto personali, quelle che fin da piccolo lo hanno fatto crescere: nelle valli del Piave, sui treni locali, inseguendo i suoi scrittori d'elezione, Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello, Jack London...
Con il nuovo spettacolo, molte cose cambiano.
«Con il passare degli anni mi sono resoconto che la lingua è runica radice che mi è rimasta. E me la tengo stretta. Attraverso le parole riesco ad appropriarmi dei luoghi e delle cose».
Quale lingua? soprattutto quali luoghi? Paolini ha raccontato il Veneto, i suoi paesaggi, i suoi poeti. Ma anche l'accanimento nazista, la strage chimica di Bhopal, Galileo Galilei e Giuseppe Verdi.
«Una lingua, la mia lingua, che è fatta di alti e di bassi, di tragico e di comico, espressioni gergali e versi sublimi di poeta. Italiano, dialetto, terra. Io sono un provinciale. Radicalmente provinciale. Provo però anche un senso di sradicamento. Un editto dell'allora sindaco Gentilini, mi aveva tenuto lontano per vent'anni dalla città nella quale sono cresciuto, Treviso. Ci sono tornato da poco. Oggi mi sento un apolide leggero».
Più che mai, raccontando Ulisse e gli dei odierni, il nuovo Marco Paolini si allontana dalla formula che gli aveva dato notorietà e successo, teatri pieni, rubriche in televisione: quella del cerimoniere della memoria pubblica di un'Italia che molto preferirebbero dimenticare.
«Crescendo, diventando vecchi, non ci possiamo fidare più della memoria. Adesso preferisco affidarmi all'immaginazione. Perché la memoria edulcora, oppure avvelena. Lascio quell'esercizio a chi e più giovane di me. A chi deve costruirsela, la propria memoria. È una decisione che ho preso una decina di anni fa: credo di essere stato coerente».
Al tempo stesso la musica è entrata sempre più prepotente. Dalle collaborazioni con i Mercanti di liquore alle session con Giorgio Gaslini e Uri Caine. Da Giovanna Marini a un sodalizio intenso con il violoncellista Mario Brunello. Rischiamo di scoprire anche un Paolini che canta?
«Un Paolini che canticchia. E non so leggere le partiture. Quindi non è stato facile confrontarmi con la musica colta, lavorare al fianco di Brunello. Ma la musica pone sempre delle sfide. Io ci sto: amo le sue simmetrie, le sue regole che hanno il fascino universale della fisica. E non mi piace che essa sia solo un accompagnamento, un tappeto, un'ancella. Curiamo molto l'aspetto sonoro di questo spettacolo. La voce straordinaria di Saba Anglana dà corpo a tutte le donne di Ulisse: Calipso, Nausicaa, Penelope. E ha la profondità di campo di tutte le terre che Saba, originaria del Corno d'Africa, ha attraversato. Ci sono anche le composizioni di Lorenzo Monguzzi, il violino d i Elisabetta Bosio. Vanno ogni volta ricalibrati per adattarsi a ciascun teatro. E' faticoso, ma è anche meraviglioso».
In scena c'è anche Vittorio, che di anni ne ha soli diciassette.
«Io sono convinto che i problemi complessi, quelli che oggi ci pone il mondo, problemi sostanziali come il peso che la cultura da una parte e la tecnologia dell'altra avranno in futuro, non possono essere risolti attraverso i tradizionali metodi di approccio. Chi si occupa di tecnologia e innovazione sa perfettamente che c'è bisogno di un pensieri nuovi. Inediti. Diversi».
Lo ha capito anche chi si occupa di cambiamenti climatici, per aggiungere un altro esempio.
«La nostra incapacità di imporre una svolta, anche su un tema così decisivo come quello del clima, deriva da un pensiero che si è cristallizzato, e che solo le nuove generazioni possono sboccare. Il direttore del Mit, una delle maggiori istituzioni tecnologiche mondiali, oggi lancia i suoi bandi di ricerca auspicando progetti che mettano assieme sì prestigiosi laboratori, ma anche ragazzi di scuole superiori o addirittura inferiori. Per questo con noi lavora anche un diciassettenne. Ne aveva solo 16 quando abbiamo cominciato. Interlocutori di chi fa il mio mestiere, interlocutori dei teatri, devono essere i giovani, e non solo come spettatori, come pubblico. Soltanto loro, il loro fare comunità, il loro parlarsi, possono portare ad aperture e visioni diverse».
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