Pubblicato il 12 Novembre 2023
Maria Laura Giovagnini - Io Donna (Web)
Parte la rievocazione di avventure e flirt in un caleidoscopio di 50 anni di storia.Ecco il Vietnam, la clonazione della pecora Dolly, l’anarchico Pinelli, il Tuca Tuca, Canzonissima, John Lennon, i pacifisti, Aldo Moro rapito, l’austerity, Giovannona Coscialunga, il divorzio, l’aborto, Messico e nuvole, il muro di Berlino, Italia-Germania 4-3, l’Aids, “Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse” secondo la rivista satirica Il Male, i paninari, la cementificazione, le autostrade, “Non mangiate i funghi causa Chernobyl”, le monetine a Craxi, piazza Tienanmen, il karaoke, Super Mario Bros, la Mano de Dios di Maradona e Mani pulite.
Parte la rievocazione di avventure e flirt in un caleidoscopio di 50 anni di storia.Ecco il Vietnam, la clonazione della pecora Dolly, l’anarchico Pinelli, il Tuca Tuca, Canzonissima, John Lennon, i pacifisti, Aldo Moro rapito, l’austerity, Giovannona Coscialunga, il divorzio, l’aborto, Messico e nuvole, il muro di Berlino, Italia-Germania 4-3, l’Aids, “Ugo Tognazzi capo delle Brigate Rosse” secondo la rivista satirica Il Male, i paninari, la cementificazione, le autostrade, “Non mangiate i funghi causa Chernobyl”, le monetine a Craxi, piazza Tienanmen, il karaoke, Super Mario Bros, la Mano de Dios di Maradona e Mani pulite.
«Io ho mancato il ’68 (ero alle medie), quindi parto dal ’69, dall’Apollo 11 e dall’allunaggio» spiega Paolini, che è già al lavoro per un nuovo testo su Darwin e le sue esplorazioni in Argentina da un’ottica contemporanea («La Patagonia, con il riscaldamento globale, nell’arco di mezzo secolo diventerà coltivabile e determinante per l’economia agricola dell’emisfero Sud»). Non solo: continua il progetto “Fabbrica del mondo”, «un cantiere, un terreno d’incontro tra gente con mestieri diversi – artisti, scienziati, cittadini – che riflettono assieme su come concretizzare gli obiettivi individuati nell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile».
Boomers è, parole sue, un “tentativo di manutenzione alla cinghia di trasmissione dell’esperienza”. L’ha ispirata aver avuto un figlio, otto anni fa?
Non lo so. A me pare che – ciclicamente – mi si ripropongano certe riflessioni mentre io, nel frattempo, sono cambiato. Come al Monopoli: faccio il giro, eppure ogni volta seguendo un percorso diverso. Quel che ti succede intorno ti condiziona, però sarebbe una spiegazione romantica e stupida: “È diventato adulto perché è diventato papà”. Non è un passaggio che ti legittima.
E allora com’è nata l’idea?
In maniera ingenua. Da anni ragiono sull’impatto che hanno le tecnologie su di me, quasi faticassi ad ammetterlo. La prima volta che vedi uno parlare da solo camminando sogghigni, poi però ti metterai gli auricolari e sarai come lui. Se non prendi atto di questi cambiamenti, rischi di considerare tutto come degenerazione di quel che c’era nel passato fino ad arrivare, semplificando, a sostenere che il mondo precedente agli immigrati era migliore e a giustificare una demagogia fondata proprio sulla nostalgia, sul rimpianto.
Che fare?
Fisiologi e neurologi spiegano che il cervello soffre dello stesso problema dello stomaco: deve “digerire”. Quando c’è accelerazione (e questa è una società accelerata, per cui la distanza tra noi e chi è nato dopo aumenta esponenzialmente), mandi giù, mandi giù, e non riesci ad assimilare. Abbiamo inventato lo slow food (sorride), dovremmo inventare qualcosa di analogo per la mente. Il teatro, in parte, serve a questo.
Il figlio, nel suo spettacolo, sostiene: una volta si contestavano i padri, «adesso noi li ignoriamo».
I sociologi dicono che non c’è contestazione perché non c’è contesto comune. E non può essere altrimenti se tu adulto ritieni il giovane un disadatto dipendente dai device o un superficiale dedito all’apprendimento orizzontale (più cose insieme, non una alla volta, a scapito della profondità) e lui ti azzittisce con: “Ok, Boomer!”. Il mio approccio è: se non si riesce a sospendere il giudizio, almeno manteniamo la curiosità verso prospettive diverse. Sennò chi resta indietro sembra soltanto vecchio, come il mio teatro.
Vecchio no, via: si usa “vintage”, come nota lei a proposito dei democristiani.
(sorride) Il rischio è che, senza accorgertene, ti ritrovi ad appartenere a una categoria che per qualcuno è vintage (e ha estimatori), ma per molti è waste age, immondizia, avendo avuto un impatto pesante sul pianeta in termini ambientali ed economici. Siamo vuoti a perdere o, invece, non dobbiamo correre il rischio di buttare via il bambino con l’acqua sporca?
La risposta?
La politica intesa come democrazia partecipata è il bambino da non gettare. In un momento di crisi come quello attuale non possiamo subire le scelte, occorre recuperare la partecipazione, ridare un senso alla politica: è uno strumento potente, benché per renderlo sexy ce ne voglia.
Per i Boomers lo era.
Ricordo – sia a scuola, sia nel quartiere – una lunga serie di faticose manifestazioni assembleari: essere presenti, intervenire era importante. Le democrazie oggi appaiono appannate, un sogno del Novecento: il pragmatismo è spinto, c’è un’accettazione passiva della logica di mercato come logica universale. I confini sono permeabili alle merci, impermeabili alle persone. Però Boomers è feroce anche con chi è vicino a me: chiede un cambiamento effettivo. Se ti racconti che basta accontentarsi dei piccoli passi, stai giustificando il fatto di non aver combinato un cavolo.
Ken Loach ci ha detto che le Destre hanno una strategia intelligente perché si basa su qualche verità.
Le proposte degli avversari non sempre sono ideologicamente e radicalmente diverse dalle tue, e nelle sfumature a volte ci si smarrisce, si perde motivazione.
Lei da quattro decenni offre il suo contributo civile dal palco. Come scelse questa strada?
Giocavo male a tennis, ero una schiappa a basket e calcio: ho provato con le scene, c’era meno concorrenza.
Scherzi a parte?
Per me il teatro è arrivato come continuazione dell’attività politica. All’inizio stai sul confine tra l’amatoriale e la militanza, con i testi di Bertolt Brecht. Quando incontri Jerzy Grotowski e l’avanguardia, ti metti a seguire i seminari in giro per l’Europa e scopri che, più della parola, c’entra il corpo… E scegli non sulla base di una strategia egocentrica ma per entrare in relazione agli altri, con notevole radicalismo. Quel radicalismo giovanile che dipende da mille ragioni, magari perché sei fragile e usi gli argini che ti danno, non essendoti ancora costruito i tuoi. Dov’è finito il testo? Il testo lo ritroverò anni e anni dopo.
Nel 1990 nascono gli Album, “biografia collettiva” dagli anni ’60.
I primi parlano dei bambini, poi i bambini diventano adolescenti e passano direttamente dalla parrocchia al caffè. Il bar Jole? È una costruzione letteraria, montaggio di vari luoghi che avevo frequentato con vari personaggi che avevo incontrato.
Perché “Jole”?
Ha un suono che mi ricorda qualcosa di anacronistico, non volevo di sicuro un nome alla moda, “trendy”. Si chiama così pure un tipo di imbarcazione che si usava nel canottaggio e su cui andavo a remare (Paolini è nato a Belluno e cresciuto a Treviso, città di fiumi e canali, ndr).
1993, gran successo del monologo Il racconto del Vajont per il trentennale del disastro della diga (duemila le vittime). L’ha appena riproposto al Piccolo di Milano per il 60° anniversario accompagnato da VajontS 23 (Azione corale di teatro civile), che ha coinvolto scuole, università, istituzioni.
La mobilitazione che c’è stata aveva dietro parecchi coi capelli bianchi… O senza capelli, come me. A loro era ben chiaro che la sfida ambientale è una sfida politica, ma non va affrontata su base ideologica. Non ho la presunzione di dare lezioncine, non terrò più il ditino alzato.
A volte il ditino serve, e assai.
Abbiamo strumenti più antichi del ditino alzato.
Cioè?
I classici greci mica alzavano il ditino, è la drammaturgia del ’900 che lo alza. Il modo di raggiungere i cuori e le teste ce l’avevano mostrato i colleghi di qualche secolo fa (ride).
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