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MARCO PAOLINI: NON DI SOLO NOSTALGIA VIVONO I BOOMERS

La nostra storia è un poema epico in codice, un cammino tortuoso, una saga senza paragoni e noi non siamo né la fine, né il fine di quella storia…”

di  Tommaso Chimenti

In questo stesso periodo Marco Paolini ha debuttato con due diversi spettacoli, Boomers, accompagnato da un trio e cantante, che abbiamo visto all’interno dell’Estate Fiesolana, e Antenati in forma di monologo solitario.

Ecco i titoli, Boomers e Antenati appunto, sembrano quasi una traduzione l’uno dell’altro.

Il tempo ci passa sopra e lascia nostalgie e rughe.

La riflessione del grande affabulatore veneto evidentemente ha trovato sponda e riparo e incaglio sulle rive fangose e appiccicose del passato, quella terra di nessuno che ti impantana, dove è bello tornare qualche volta quando non riusciamo più a capire né interpretare il mondo circostante, quando ci troviamo spaesati senza più risposte.

Ed è un dialogo (in realtà azzoppato, o al limite non il classico confronto) sghembo e sgualcito questo tra un padre che non ascolta più il figlio e un figlio che invece che uccidere metaforicamente il genitore lo ignora.

Paolini sale sul palco: Un benvenuto a Patrick Zaki e un addio a Andrea Purgatori.

Una certezza, sappiamo sempre da che parte sta Paolini, da quella giusta.

Sullo sfondo di Boomers l’incomprensione ma anche la solitudine e ormai la rinuncia a tentare di entrare l’uno nel mondo dell’altro.

Il pretesto del tutto però (leggermente forzato) è un gioco virtuale che il figlio sta montando e monitorando, mettendo a punto e scandagliando, un play in 3D da vivere con i visori della realtà aumentata e dove il padre, che è protagonista a sua insaputa, può tornare a toccare con mano i suoi tempi, le cose passate, tutte quelle vicende che hanno costruito quel substrato del quale è fatto e formato.

Ma non è un semplice elenco, Boomers, piuttosto una presa di coscienza.

Certo che ogni generazione successiva vede un capro espiatorio delle proprie insoddisfazioni in quella precedente, e ogni precedente non si riconosce in quella nuova anzi bollandola negativamente.

Negli anni ’80 i ragazzini con il piumino gonfio e gli scarponi da montagna firmati ai piedi mangiando i primi hamburger arrivati dagli USA chiamavano i genitori, o comunque le persone più adulte,

Matusa con quella punta amara di vendetta anagrafica e offesa sotterranea, come a dire sei vecchio, sei fuori, cosa ne vuoi sapere tu, ormai non sei soltanto trapassato remoto ma anche dimenticatoio, morto, sepolto nell’oblio: il tempo è nostro.

Sulle sedute antiche in pietra dell’Anfiteatro romano, scenario stupendo in mezzo alle stelle, va detto però che si sta scomodissimi e che le sottili sedute di gommapiuma non alleviano certamente il faticoso cercare una posizione meno traumatizzante.

I ragazzi di oggi sono quelli che non votano, fissati con il climate change, che bloccano il traffico sul Grande Raccordo Anulare, che imbrattano i monumenti, quelli che a scuola non li bocciano più, quelli che fanno l’università a crocette, quelli con le tende davanti agli Atenei perché vogliono la casa in affitto a Roma accanto alla Sapienza e pagarla anche poco.

I giovani di oggi protestano un po’ per tutto e per tutto la colpa è dei boomers, ovvero di quelli che sono arrivati prima di loro: non è soltanto scontro normale, logico, nel gioco delle parti, tra due generazioni, ma qui si sfiora il vittimismo, la deresponsabilizzazione, lo scarica barile, il nichilismo, l’essere viziati.

Paolini, immerso dentro il mondo virtuale dei suoi vent’anni, tra gli avventori del suo bar storico di riferimento, il Bar Iole, e tutti i suoi personaggi che lo popolavano, attraverso lo sbarco sulla Luna ci racconta un mondo non solo cambiato ma stravolto in pochi anni da cambiamenti epocali, così veloci da spazzare via con un colpo di spugna centinaia di anni di stratificazione sociale.

E’ luglio del ’69, Dubai non esisteva, il PIL cresceva e ancora era davvero tutto possibile.

Non esistevano i telefoni cellulari ma si sentiva presente e tangibile il progresso che stava arrivando a passi da gigante.

Tutto doveva durare nel tempo e l’obsolescenza tecnologica non poteva essere contemplata nel vocabolario d’allora, niente a che vedere con il consumismo dei ragazzi che parlano dell’innalzamento della temperatura terrestre ma cambiano cellulari di continuo, fanno viaggi aerei low cost e si lamentano invece che cambiare le cose attraverso le regole della democrazia partecipativa ma soltanto indignandosi con un click dal divano.

Patrizia Laquidara ha una voce soffice e soave (tra il timbro di Simona Molinari e il tono di Marina Massironi) e ci porta per mano dentro quegli anni, tra jingle e canzoni, anni che a vederli ora viene la tenerezza.

E’ la domanda, inaspettata, del figlio al padre: Come eri alla mia età? che apre la botola dei ricordi e scatena il Vaso di Pandora.

Escono i demoni seppiati di un tempo, di un passato che allora si chiamava presente: i Pink Floyd e i Ricchi e Poveri, i Doors e il foglio rosa, il fax e Tognazzi capo delle BR, l’HIV e ChernobylAldo Moro e il Muro di Berlino, il Game Boy e piazza TienanmenCraxiMaradona e Peppino ImpastatoMani PuliteSmaila, la Perestroika e la Thatcher, la scuola DiazCogne, il Grande Fratello, la trattativa Stato-MafiaPantaniCalciopoliLady DTrump presidente.

Non è un elenco ma piuttosto un’anarchia che si fa poesia, che ci fa sognare e commuovere per tutto quest’ammasso di vita vissuta che a guardarla adesso, con gli occhi più stanchi e le palpebre più calanti, ci viene da perdonarci, da abbracciarci, da consolarci.

Ne abbiamo passate di vicende che si sono abbattute sulla nostra pelle, e un epiteto più o meno detto cercando di offendere, non può comprimere tutti quei sogni e speranze, lacrime e ansie.

Uno spettacolo intelligente che ci parla di radici e di futuro, di carezze ma anche di ascolto reciproco.



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