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Paolini, nel teatro fra parentesi la morale è un punto di domanda.

Rispetto al peso (per temi e minutaggio) di certi precedenti, questo “Teatro fra parentesi” di Marco Paolini fa l’effetto d’uno zibaldone più lieve, estivo, meno perentorio nella ricerca d’una morale che pure c’è, ma emerge in balenii fulminei, lasciando nello spettatore (e in lui, probabilmente) più domande che risposte. Tipo: che idea abbiamo di futuro? Cosa significa, oggi, il vivere insieme? C’è ancora spazio per un vero aiuto reciproco? E certe parole, certi concetti come “sostenibilità”, “solidarietà”, non è che son scaduti al livello di frusti slogan, troppo ripetuti e poco praticati?

Rivelatrice, in tal senso, è la ripresa del “Sogno in due tempi” di Giorgio Gaber, maestro nell’arte del dubbio paradossale, ovvero l’episodio del tizio che in un primo sogno si vede su una zattera e, scorgendo venirgli incontro un altro a nuoto, pur con tutti i suoi progressisti principi di fratellanza universale mica è tanto pronto a offrire soccorso; nel secondo sogno, quello stesso tizio si vede nella parte di colui che sta in mare, al che esclama convinto: “Sono per l’accoglienza!”. Insomma, dipende dai punti di vista, e non si sa mai come finisce.

Quanto alle “sue” storie, Paolini ne azzecca un paio di notevoli. Rieccolo, ad esempio, nel 1983, giovane teatrante (ovviamente “impegnato”) di belle speranze, alle prese con la tragicomica organizzazione di una “Lectura Dantis” ad opera di Carmelo Bene, operazione economicamente disastrosa condotta sotto un tendone da circo allestito in un ex foro boario a lato di una rumorosa linea ferroviaria, serata conclusasi con l’inevitabile sdegno del Divo. E poi, risalendo nel tempo, eccolo a Gemona tra le macerie del terremoto friulano del 1976, volontario di una protezione civile che ancora non c’era, grato per la lezione di umanità ricevuta da una signora Rosina pronta a offrire il poco rimastole, vino e caffè, e poi capace di ricostruire il mondo che le era crollato addosso.

Tra gli altri episodi, altrettanto bene a livello narrativo funziona l’omaggio postumo a Stanislav Petrov, quel tenente colonnello dell’Armata Rossa che nel 1983 semplicemente salvò l’intero pianeta da una guerra nucleare quando, mentre i radar sovietici segnalavano l’arrivo di cinque missili atomici dagli Stati Uniti, si assunse la responsabilità di non mettere in moto la procedura di difesa bellica ipotizzando ciò che era in effetti accaduto, ovvero un errore nei sistemi di allarme.

Da pagine come queste, Paolini trae spunti di riflessione su quanto è avvenuto negli ultimi decenni in sistemi ritenuti “too big to fail” (troppo grandi per fallire) come il crollo del blocco comunista, la crisi della finanza capitalista, l’impetuoso manifestarsi delle emergenze ambientali, arrivando fino alla pandemia attuale, all’imperare delle “fake news” generatrici di fobie; ma lo fa con l’intento di generare una sana capacità di analisi e di lucida reazione, appoggiandosi anche a quelle indiscutibili doti di (auto)ironia che lo salvano dal cliché della facile predica alla Celentano in tivù, e intanto sollecitano il pubblico a giovarsi del medesimo vaccino intellettuale.

Nel percorso, stanno ad affiancarlo bravamente il canto di Saba Anglana e la chitarra, voce e armonica “dylaniana” di Lorenzo Monguzzi, già compagno di palco coi Mercanti di Liquore.
Il tutto, l’altra sera, suggellato dagli applausi del folto pubblico radunatosi nel parco di Villa Cerchiari, uno dei migliori esterni creati da Operaestate oltre le mura bassanesi.

 

di Antonio Stefani

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