Nata in fase embrionale due anni fa e cresciuta via via con l’aggiunta di elementi strada facendo, caratteristica del suo stile, arriva in teatro l’ultima rappresentazione di Marco Paolini, la “Ballata di uomini e cani – tributo a Jack London” in scena al teatro Argentina di Roma.
Con l’ausilio di una scenografia scarna e minimalista e l’accompagnamento del sodale Lorenzo Monguzzi alla voce e chitarra, nonché degli altri due musicisti Gianluca Casadei e Angelo Baselli rispettivamente alla fisarmonica e clarinetto, Paolini ci porta al cospetto di uno dei più grandi narratori americani che, attraverso le sue opere, riesce a dipingere un immaginario avventuroso e reale e dove il legame tra uomo e natura è filo conduttore per aprire scenari sull’essenza dei rapporti, delle ambizioni, del coraggio e dei propri limiti. Per narrare ciò si avvale di 3 racconti che hanno come protagonisti uomini e cani: “macchia”, “bastardo” e “preparare un fuoco”.
Abbandonando questa volta i riferimenti al sociale e al contemporaneo (di cui ci sarà solo un accenno nel finale), l’artista e i suoi 3 compagni ci prendono per mano trasportandoci in un viaggio a ritroso nel tempo, con atmosfere degne della grande depressione grazie all’ausilio di costumi di scena stile “hoboes” e di bidoni metallici sparsi quà e la sul palco, sapientemente trasformati nel corso della narrazione ora in slitta, ora in patibolo, ora in cortina di neve. Perché la maestria di questo affabulatore sta proprio nel lavorare senza troppi fronzoli, riuscendo ad azzerare la realtà con la sola potenza empatica del suo stile narrativo, che rapisce il pubblico e lo tiene in silenzioso ostaggio per ben due ore di spettacolo, senza interruzione. E così, nonostante l’evidente stato influenzale del protagonista, tra uno starnuto e un colpo di tosse, seguiamo dapprima le esilaranti vicende di macchia, cane da slitta senza vocazione che viene più volte venduto e abbandonato dal suo padrone per fare però sempre rientro alla base, nel classico connubio di fedeltà che lega questo animale all’uomo. A seguire il rapporto crudele e cruento di amore e odio tra un bastardo e il suo padrone altrettanto feroce, a mio avviso il più toccante, che in un crescendo di violenza si esaurirà solo con la morte. Per finire il più suggestivo dei racconti, accompagnato da un bellissimo corto proiettato su un monitor formato da lanterne. Un viaggiatore solitario, in compagnia di un cane, che cerca di solcare lande impervie e desolate spingendosi fino all’estremo e sfidando quella natura dalla quale verrà sopraffatto per assideramento, nonostante abbia cercato in tutti i modi di vincere la sorte prima con l’ausilio del fuoco, e infine con l’idea di uccidere il cane per riscaldarsi con la sua pelliccia. Quest’ultimo lo abbandonerà lasciandolo morire nell’indifferenza, avendone probabilmente intuite le intenzioni. È una metafora questa del cane e del padrone che rappresenta il rapporto tra uomo e natura, e dove Paolini nel finale ci svela con un colpo di teatro che lui ovviamente rappresentava il cane. Un viaggio dove la musica lega le parole, dove Monguzzi con la sua splendida voce ci allieta con alcuni pezzi di Woody Guthrie tra un racconto e l’altro, strappando applausi che Paolini scherzosamente rivendica per se (…lo spettacolo è il mio, mica di questo!). Unico toccante raccordo con la realtà ci viene concesso nel finale quando l’attore fa un parallelo tra i viaggi degli hoboes all’epoca di ambientazione dei racconti e quello tragico di un migrante dei giorni nostri su un mezzo di fortuna. Si accendono le luci. La sensazione è quella di uno spettacolo breve, durato meno del previsto. L’orologio ci dice che stiamo sbagliando: due ore filate via, parole che hanno dato il via al nostro immaginario dipingendo quadri suggestivi davanti ai nostri occhi. È notevole la difficoltà di trasportare in teatro la letteratura, una sfida ancor maggiore di quando tale processo avviene nelle sale cinematografiche. Paolini la sfida l’ha vinta.
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