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Soldato Peter di Gianfilippo Pedote e Giliano Carli

Se è possibile  che ci sia un destino nel nome, questa suggestione può anche spostarsi da un livello così fatalista e identificarsi con la pratica attiva e posizionata del raccontare una storia: un nome può contenere, o evocare, una forma di narrazione e questo è sicuramente il caso di Peter Pan, soldato austro-ungarico rimasto ucciso appena ventunenne durante la Prima guerra mondiale  nei pressi del  Monte Grappa e al quale si ispira Soldato Peter, diretto da Gianfilippo Pedote e Giliano Carli. L’omonimia con il personaggio dell’eterno fanciullo dell’Isola che non c’è creato da J.M. Barrie non è infatti per gli autori solo casuale, ma diventa il pre-testo da cui partire per rappresentare una esperienza di giovinezza e di morte, di memoria e smarrimento, pulsionale e fantasmatica insieme, che rende vicina e toccante una storia altrimenti cosi lontana e in parte poco conosciuta nelle sue implicazioni non solo relative agli specifici eventi storici, ma anche alle riflessioni etiche, morali, sociali che ne derivarono, lasciando un segno profondo in quell’umanità agli albori del sanguinoso secolo breve. La grande guerra è peraltro una di quelle meno ricordate dal cinema contemporaneo- che continua invece a fare i conti con il  Secondo conflitto attraversato dall’abissale senso di colpa della Shoah e delle bombe atomiche-nonostante la sua natura di guerra di trincea, di corpo a corpo, di dimensione più ravvicinata, ad altezza d’uomo, rispetto alle immagini di grandi masse deportate e stipate nei treni merci.

Questa solitaria condizione, che vede nella fuga e nell’atto del disertare una forma di resistenza alla sistematica carneficina alla quale i soldati in prima linea venivano condannati, è subito attribuita a Peter che passa guardingo e spaurito lungo le verdeggianti alture di un paesaggio  apparentemente incontaminato e quieto nei dettagli della flora e della fauna che lo abitano.

Ma lo sguardo di Peter si porta dentro e proietta fuori la rappresentazione di un mondo messo a ferro e fuoco dove il male è in agguato, pronto ad esplodere  e a sconvolgere gli equilibri di qualsiasi ecosistema. Uno stato delle cose forse inguardabile e tollerabile alla vista  solo attraverso l’ immaginazione, che introduce l’utilizzo da parte degli autori di animazioni, ricalcate sulle riprese dal vivo, nelle quali si svela la notte buia dell’anima con tutti i suoi demoni; una maniera non solo per ricalcare, letteralmente, gli effetti devastanti della guerra sulla natura sbigottita testimone e inghiottita vittima di una violenza sistematizzata e intenzionale, ma anche per sublimare l’identità del protagonista dilaniata e contaminata dalle macerie e dai rimbombi di una distruzione totale e implacabile, nella carne e nella psiche.

Rispetto al protagonista del romanzo di Barrie, questo efebico soldato (la cui essenza simbolica di un’età acerba spezzata alla quale è stata interdetta la maturità è incarnata con toccante efficacia dalla fisicità fluida di Ondina Quadri) non ha più sogni in cui credere, ma solo incubi e forse la memoria, non però intesa come processo in costruzione ma già elaborazione di qualcosa di perduto; così, nel silenzio astratto della propria fuga oltre la vita e la morte, nello spazio percettivo di Peter rientra il tempo, dato dalle sequenze, che sembrano dei filmati in Super 8 ritrovati in qualche archivio dimenticato: frammenti  di un’infanzia e di una fanciullezza spensierate, insieme ad un amico, che sarà suo commilitone caduto in battaglia,  con il quale la “guerra”  era ancora uno spazio di gioco oppure il rito arcaico per esorcizzarne inconsciamente l’imminente verificarsi, la portata mortale del suo avvento, sognando invece una corsa verso il mare mai visto dalle cime delle montagne ungheresi. Si tratta di un raccordo molto poetico nella sua semplicità e trasparenza, che viene poi tradotto, per non restare solo amara sensazione di ciò che esaurisce nella durata di un fotogramma, nel segno concreto del disegno, utilizzato in questo caso come elemento diegetico del racconto; sono infatti i ritratti degli altri commilitoni uccisi, che Peter ha impresso su dei fogli di carta e che stende sul tavolo di legno di un rifugio, stabilendo immediatamente il contatto con una realtà parallela. E qui il riferimento a Barrie si fa esplicito nel citare, tanto verbalmente che graficamente, l’isola che non c’è , sulla quale è possibile rincontrare bambini perduti che hanno le sembianze di una precoce vecchiaia e mostruosità inflitte dalla costrizione di uccidere i propri simili, di smarrire, prima ancora della fantasia, l’ultimo baluardo di empatia e pietas. L’attaccamento all’andatura favolistica e onirica, seppur in un’atmosfera di cristallino realismo,  è dunque la difesa più strenua della propria umanità da parte di Peter, il suo elevarsi al di sopra della hybris nella quale gli individui ridotti nella basilare forma di sopravvivenza e ferocia – forse i diavoli che emergono dai tratti stilizzati delle animazioni? -si sono impantanati, con il sangue di ragazzini innocenti, sbalzati da un’ uniforme all’altre, da una faccia all’altra, senza la possibilità  di capire. La sequenza in cui Peter si rivolge simbolicamente a un soldato nemico ricostruendone la sagoma attraverso l’uniforme, pur nel suo didascalismo abbastanza marcato, è a questo proposito eloquente messa in scena di un negato processo di consapevolezza, dove il tempo sospeso permette a quel ragazzo di vedere, anche se attraverso  una pantomima, l’altro da sé gradualmente spogliato del suo ruolo e della sua funzione, ridotto a manovrabile burattino e inerme spaventapasseri di ordini più grandi (il potere politico e militare è l’enorme, voluto fuori campo nel territorio esistenziale in cui si muove il Soldato Peter).

E anche nei momenti in cui è concesso un incontro con altre figure, queste non possono che essere spettri di un’ormai stanca e reiterata coreografia di diffidenza e aggressione, che infine regredisce fino a tornare quel gioco troppo presto interrotto dell’infanzia. Da questo punto di vista, la sparigliata truppa che Peter incontra sul suo cammino, sembra spostare ulteriormente la prospettiva e rivolgersi a Cervantes, con quel donchisciottesco Capitano (Peppe Servillo) a cavallo e il luogotenente/Sancho Panza che fa il suo scudiero (Sergio Bustric).

Arrivato a combattere contro i mulini a vento, a Peter non resta che la morte ( che ha le sembianze sagge e lunari di Benedetta Mazzini, compagna di viaggio e custode silenziosa di corpi e oggetti). Ma forse non ci piace pensare a lui come il paradossale nome su una lapide tra il mausoleo della carneficina di tanti anonimi suoi coetanei, quanto a un ‘altra suggestione ancora, alla comunanza con un altro disertore: il soldato semplice Arthur Hamp di Per il re e per la patria, eterno capolavoro pacifista di Joseph Losey, condannato a morte dalla corte marziale non per aver disertato, ma per essere andato a fare una passeggiata.

Quella stessa passeggiata che avrebbe portato Peter e il suo amico Maty a vedere, come Antoine Doinel alias di Truffaut, il mare, per la prima volta (ma non vedremo mai quel fermo immagine).

In sala dal 9 novembre 2023


Soldato Peter  – Regia: Gianfilippo Pedote e Giliano Carli ; sceneggiatura: Gianfilippo Pedote, Giliano Carli, Enrica Carli; fotografia: Matteo Calore; montaggio: Benni Atria, Alberto Masi; musica: Giancarlo Schiaffini; interpreti: Ondina Quadri, Peppe Servillo, Sergio Bustric, Benedetta Mazzini, Franz Stefani, Saghi Timea, Hegyesi Abel; produzione: Jolene Film, PMI con Rai Cinema; durata: 84 minuti; origine: Italia, 2023; distribuzione: Parthenos.

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