LA MACCHINA DEL CAPO
Interpretazione e regia Marco Paolini
Testi di Marco Paolini, Michela Signori
Musiche originali composte ed eseguite da Lorenzo Monguzzi
Elementi scenici: Antonio Panzuto | Disegno luci: Andrea Violato | Consolle audio: Gabriele Turra | Consolle luci e direzione tecnica: Marco Busetto
Assistenza tecnica: Yurji Pevere, Graziano Pretto | Illuminotecnica e fonica: Ombre Rosse
Produzione: Michela Signori, JOLEFILM
2009
Durata: 1 ora e 50 minuti, senza intervallo
La macchina del capo prende vita dagli Album, i racconti teatrali costruiti lungo un arco temporale che va dal 1964 al 1984, nei quali lo stesso gruppo di personaggi cresce passando da uno spettacolo all’altro, in una sorta di romanzo popolare di iniziazione.
Non è un diario, non è un pezzo nostalgico, e nemmeno una memoria d’altri tempi.
È un lavoro sull’infanzia e sulla primissima adolescenza, tra la famiglia, la colonia e le avventure nel campetto di pallone.
È un viaggio che parte dalla casa, micro-universo dal quale osservare il mondo, per avanzare alla scoperta del macro-mondo (del mare, dei compagni di giochi, del sesso visto con gli occhi di un bambino).
È il ritratto di un’Italia di periferia, vista su scala ridotta, tra la Pedemontana e il mare.
È un lavoro sul desiderio e sulla scoperta, vicino alle atmosfere di Monicelli. I ragazzi protagonisti del racconto sono quasi gli “Amici miei”, ma ragazzini. E le zingarate sono forse più innocenti, ma lo spettacolo si permette di giocarci con altrettanta ironia.
Per questo spettacolo ho preso le storie più vecchie che ho raccontato, le ho prese dai primi Album, quelli su cui ho imparato questo mestiere che viene dal teatro, il mestiere di raccontare storie. In quei lavori ho imparato a dosare i personaggi e a mescolarli con il filo della storia, a interpretare e narrare insieme. Ho ricombinato le storie vecchie con episodi nuovi che ho cominciato a scrivere un paio d’anni fa.
Si tratta di un viaggio in Italia, dalla montagna alla pianura fino alla scoperta di Roma. Un viaggio al confine di un mondo: Nicola si chiede cosa farà da grande, sogna, fa progetti, indeciso se fare il ferroviere come il suo papà o il parcheggiatore di autoscontri. E poi affronta i piccoli traumi della crescita come il rapporto con la scuola.
Racconto di un’ infanzia non protetta da cordoni sanitari di adulti, di campetti di periferia, di viaggi in treno e di vacanze avventurose. Narro di un bambino di 10 anni e della sua fretta di crescere.
Non racconto per nostalgia, ma per divertimento, racconto per chi c’era già e riconosce i dettagli ma anche per chi è nato dopo e si diverte alla storia. Negli Album mostro lo stupore della scoperta del mondo, che poi si evolve nel racconto del disincanto, ma non c‘è nessun sentimento nostalgico e nessun messaggio generazionale. Nicola alla fine andrà a sbattere contro la realtà di questo Paese ma in questo racconto quello che cerco di fare è recuperare lo sguardo del bambino.
Questo racconto è pensato per tutti, a diversi livelli di fruizione. Nel percorso di crescita di questo bambino, tra banchi di scuola, campetti di calcio e ferrovie, si possono riconoscere sia i miei coetanei che quelli più grandi di me, ma si riconoscono anche i bambini di oggi. Io non ho figli ma ho aggiunto nuove parti rubando molto ai racconti dei miei nipotini di 7 e 9 anni. Uso l’ironia per immedesimarmi nello sguardo di un bambino, ma lo faccio senza caricature. Cerco di far immaginare le cose e sul palcoscenico non indosso i pantaloncini corti, ma divento un bambino di 10 anni raccontando qualcosa che è vitale anche per me oggi.
E Lorenzo Monguzzi (dei Mercanti di Liquore) mi accompagna in questo esercizio; con lui abbiamo creato canzoni senza tempo, ispirate alle filastrocche di Rodari o alle melodie composte da Carpi per il Pinocchio di Comencini.
La macchina del capo è una macchina speciale, rosa, quella di un capo per l’appunto, protagonista di una delle nuove storie che ho scritto per questo spettacolo, ma è anche il titolo della filastrocca, che tutti, anche i miei nipotini, conoscono e che per tutti si colloca in un preciso momento della crescita, che qui racconto.
Marco Paolini
Gennaio 2010
[…]
Guerra, era guerra, ho passato tutte le elementari in guerra. I soldati combattevano con vigore fino alla quarta, in quinta sentivi che i pensieri ti privavano dell’animosità della battaglia: cominciavano a pensare alle medie, perché lì bocciano. Era guerra nel campetto contro quelli di via Lancieri di Novara, contro quelli di Via Brigata Marche, contro quelli di via Bersaglieri che avevano le bici da omo e si chiamavano i bersaglieri ciclisti. Oltre che sul nostro campetto in via Monte Cengio abbiamo combattuto su altre cime: via Adamello, via Podgora, Via Pasubio, Via Re di Puglia, e anche in via Caporetto dove ne abbiamo prese un fracco! Ma soprattutto sul nostro campetto, conquistato e perso un fracco di volte.
Tutti eravamo ufficiali, Ciccio Pavan e Piero matto elefanteria, Cesarino soldato semplice.
Una volta i nemici hanno mandato un esploratore nel campetto nostro, era uno dei grandi, ha passato la ferrovia che era il confine. Era armato di un fucile a aria compressa, Oklaoma a piumini, scarico – i piumini fan male, ma costano, così dopo la prima scatola è difficile che te ne comprano ancora – aveva il colpo in canna e poi finiti tutti. Lo abbiamo disarmato, abbiamo tirato delle pirule a distanza ravvicinata, con lo spillo sulla punta – sembrava S. Sebastiano. Lo abbiamo portato nella capanna vicino alla fogna per interrogarlo. Era grande, si chiamava Bruno, era in classe col fratello grande di Ennio Mosca, però lo chiamavano Seghe, perché era sempre il primo, dicono, a un certo tipo di gare che facevano i grandi dietro il ponte della ferrovia. Noi lo abbiamo legato al palo tortura e abbiamo incominciato a interrogarlo. Oscar, che era il capo, ha cominciato a interrogarlo:
– Seghe, è meglio che ti arrendi e confessi, se vuoi tornare a casa vivo!
– È meglio che vi arrendete tutti voi altri piccoli e che andate a casa prima che arrivino i rinforzi.
Cesarino, il cocco della maestra, voleva arrendersi al prigioniero e tornare a casa a finire le divisioni con due decimali, ma noi ufficiali lo abbiamo arrestato:
– Torturatelo!
– Chi, Cesarino?
– Ma no, il prigioniero!
– Io lo torturo!
– No, io lo torturo!
– No io lo torturo!
– Io io io…
– Io ggli ddo un ffracco ddi ggnocche ssul nnaso…
– Piero, fermo! Perché non ti comporti in modo normale?! Piero quello è massacro no tortura!
– Aaah
– Ragazzi, sì, io ho un’idea.
– Avanti, Ciccio, parla.
– Perché non lo lasciamo legato al palo tutto il pomeriggio senza mangiare?
– Ciccio quella è una dieta, no una tortura.
– Beh, io un’altVa idea ce l’avVei.
– Dai Gianvittorio avanti che vien notte.
– Gli caviamo le scaVpe, gli caviamo le bVaghe, gli caviamo le mutande, e gli tagliamo il ciccio.
– State scherzando vero? Dai per favore lasciate in pace, cosa state facendo, no le scarpe eeh, fermi un attimo, no nudo, no, fermi! lascia stare le mutande, mi vergogno…Fermi! Pietà! Fermi!
– Guardate….Il prigioniero ha i peli!
– I peli erano sacri. Tutti volevano averli.
[…]
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