Siamo tutti migranti. Siamo tutti soli, estranei gli uni agli altri. Siamo tutti antieroi. Anche gli eroi, nostalgici di antichi miti di riscossa e di libertà. Miti perduti, nonostante la ricerca caparbiamente continui da parte di un piccolo uomo, ex eroe, Ulisse, ora soltanto Nessuno, ora soltanto “calzolaio” di Ulisse, cioè umile facitore dei suoi strumenti di viaggio: i sandali.
Ora definitivamente bollato da tutti come “uomo di merda” (nel tipico fiorito linguaggio degli autori) ma che indomito, anche se ormai vecchio e stanco, incompreso e rifiutato, continua ad andare, a cercare… Che cosa? Virtute e conoscenza? Libertà? Violare i limiti inviolabili fissati dagli dei? Sfidare leggi e costrizioni? Sfidare il Fato? Costi quel che costi? Fino a sprofondare negli abissi? E magari convincersi che è dolce naufragar in qualche mare? Questo Ulisse, metafora dell’eterna ricerca dell’Uomo che fatto non fu per viver come bruto, più piccolo e antieroico non potrebbe essere di come ce lo presenta Paolini ne “Il calzolaio di Ulisse” (scritto a quattro mani con Francesco Niccolini e prodotto da Jolefilm per la regia di Gabriele Vacis, in cartellone dal 12 al 14 luglio quale terzo spettacolo di prosa al Teatro Romano nell’ambito dell’Estate Teatrale Veronese) con tanto di impellenti bisogni corporali insistentemente sottolineati in una visione ciclica del lavoro.
Questa ci è sembrata la rilettura in chiave paoliniana del poema omerico dedicato a Ulisse, l’astuto, il poliedrico mentitore, il navigante. Il migrante per antonomasia. Una rilettura dell’Odissea, non senza continui rimandi all’attualità e in un linguaggio che è una sorta di “koiné” tra italiano (percepito, ci ha dato l’impressione, quasi come una sorta di sovrastruttura linguistica imposta) e veneto (la lingua madre, quella dei padri) con inclusioni anglosassoni (tanto di moda!) che per Marco Paolini prende le mosse da lontano. Da quel primo “U…” del 2003 che passando per varie rielaborazioni – procedimento tipico della creatività di Paolini – giunge all’attuale “Calzolaio”, in attesa dell’annunciato “sequel”, “Nel tempo degli dei”, che andrà in scena al Teatro Stabile Strehler nel marzo del prossimo anno.
L’attuale versione è definita, nel titolo, “oratorio”. Forse perché la struttura drammaturgia presenta il dotto ricordo della narrazione cantata degli aedi con la presenza in scena di valenti moderni strumentisti (Lorenzo Monguzzi, Emanuele Wiltsch e Vittorio Cerroni, all’occasione anche attori, con quest’ultimo in particolare evidenza nel doppio ruolo) e di una acrobatica vocalist, pure attrice, la bella e seducente Saba Anglana. Tutti in armoniosa intesa con l’affabulazione di Marco Paolini che, peraltro, non rinuncia, egli stesso, a prestare anche la sua voce a qualche prudente, sommesso approccio di contorno al canto.
Una particolare riflessione, secondo noi, merita il passaggio in cui Ulisse/Paolini intona fischiettando il glorioso canto di battaglia e sacrificio per la libertà “Oh bella ciao”, lanciato con il cuore verso gli spettatori, che mostrano un fiacco e scarso coinvolgimento. Un omaggio, che suona nostalgico e forse anche un po’ patetico, verso memorie lontane, che furono.
Teatro gremito e plaudente, con qualche defezione prima della fine dello spettacolo.
Merita sottolineare che in apertura di serata, è stato consegnato all’attore Roberto Herlitzka il 61° Premio Renato Simoni per la fedeltà al teatro di prosa. Lo ha deciso la giuria presieduta dal Sindaco di Verona Federico Sboarina. Ha consegnato il premio l’assessore alla Cultura del Comune di Verona, Francesca Briani.
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